L’uomo contro l’ambiente: fotografie di un campo di battaglia
«Il paesaggio è un narratore della storia più onesto delle persone inaffidabili ed egoiste che camminano sulla sua superficie», Simon Norfolk aggrotta le sopracciglia, seduto nel cortile di una casetta toscana. È uno dei più grandi fotografi documentaristi viventi, indossa scarpe da ginnastica, bermuda verde acido e un cappellino da ciclista.
Negli ultimi 15 anni, Norfolk si è dedicato a immortalare la traccia lasciata da guerre, genocidi e più recentemente dal cambiamento climatico sull’ambiente. «Quando la storia umana è così scivolosa, piena di bugiardi che negano completamente la realtà, il paesaggio sembra racchiudere i segreti della storia in modo più onesto», continua.
Nato a Lagos, in Nigeria, nel 1963, passato per le università di Bristol e di Oxford, ha scelto di dedicare la sua vita a una rappresentazione visiva di tutto quello che può significare il termine «campo di battaglia».
Le cicatrici sul paesaggio afghano
In Afghanistan – dove ha passato mesi in mezzo alla gente del posto, per scongiurare quell’idea coloniale del fotografo in abito safari, che esce dall’aereo, immortala il conflitto e poi riparte alla volta dei suoi lettori occidentali – Norfolk ha cercato gli scorci in cui il paesaggio si mostrava come testimone del passaggio della storia. E l’ha fatto fotografando gli scheletri degli edifici, o i reperti dei carri armati immersi in una campagna lavorata da millenni dai contadini afghani e dimenticata dai media.
«Non sono un fotografo “bang bang”. Quello che mi interessa sono gli effetti del conflitto, in genere fotografo guerre che sono avvenute 20 o addirittura 100 anni fa e cerco una traccia, qualche indizio, qualche tipo di prova». Norfolk si definisce un archeologo, più che un fotografo, con la missione di portare davanti agli occhi di tutti verità nascoste o dimenticate del passato.
Si trova a Cortona in occasione del festival fotografico Cortona On The Move, dove sono esposte quattro delle sue serie, riunite sotto al titolo «Scene del crimine». Tra questi, «When I Am Laid in Earth», un progetto elaborato in collaborazione con Klaus Thymann per Project Pressure, una Ong che si occupa di creare metodi per visualizzare il cambiamento climatico.
Fuoco sui ghiacciai che si stanno sciogliendo
Norfolk si è occupato di rappresentare visivamente l’erosione del ghiacciaio Lewis sul monte Kenya, che ha perso il 57% del suo volume tra il 2004 e il 2016, secondo uno studio dell’Università di Graz. L’Ong ha chiesto a Norfolk di applicare la stessa tecnica utilizzata per fotografare l’impatto dei conflitti umani sul paesaggio per immortalare il cambiamento climatico.
Così il fotografo ha tracciato linee di fuoco sulle montagne che riproducevano il livello a cui si trovavano i ghiacciai prima che iniziasse la loro erosione. «La parte più difficile è stata fotografare un’assenza», spiega Norfolk, «La fotografia è un grande strumento per descrivere il mondo, è democratica. Ma è un pessimo strumento per descrivere le cose che non ci sono».
I suoi lavori vengono pubblicati sul New York Times Magazine, sono in mostra nelle gallerie di tutto il mondo. Ma che valenza sociale hanno queste sue immagini? Ci pensa mai se possono servire a qualcosa? Sospira, «Ogni giorno»
Norfolk ci spiega come per lui la bellezza è sempre stata un escamotage. «Perché uno dovrebbe passare un sabato pomeriggio guardando tristissime immagini del cambiamento climatico? Puoi passare il pomeriggio su Instagram o al pub con gli amici. Il mio competitor non è la galleria a fianco, ma tutte le cose che uno potrebbe fare un sabato pomeriggio. In qualche modo devi fare breccia. Devi prendere le persone, trascinarle dentro con la bellezza, e quando si avvicinano le prendi a pugni in faccia con le storie tragiche che stai mostrando».
Alberi amputati
Yan Wang Preston, come Norfolk, crede che la fotografia non debba essere imbraccata come un fucile, ma usata come esca per portare lo spettatore verso intime riflessioni etiche o ambientali. Sulle pareti del Palazzo Capannelli a Cortona, che ospita la sua mostra «Forest» sono appese immagini di alberi secolari circondati da megalopoli moderne, piante amputate, trapiantate.
«Nel 2011 ero a Chongqing, la più grande città cinese, e camminando in giro ho notato che in mezzo alla città erano stati piantati vecchi alberi con i rami mozzati», racconta Preston, che ha lasciato la Cina per trasferirsi nel 2005 nel Regno Unito. «Allora mi sono resa conto che si trattava del risultato di una politica urbana. Chongqing mirava a diventare una “città-foresta”, ma le autorità non volevano essere costrette ad aspettare il tempo necessario a far crescere alberi giovani. Hanno deciso di piantare alberi già maturi, per costruire una foresta pre-fabbricata».
La ricerca di vegetazione nelle foreste di cemento urbano può infatti essere tanto invasiva quanto la deforestazione: «Molti di questi alberi vengono sradicati dal loro habitat naturale e trasferiti nelle metropoli quando il villaggio in cui si trovavano viene distrutto nel processo di urbanizzazione della Cina». Molte di queste piante secolari, pagate migliaia di dollari per dare un tocco naturale alle città, muoiono infatti nel trasporto.
Con le sue immagini, la fotografa spera di aprire un dialogo sulla salvaguardia dell’ambiente e sull’urbanizzazione. Ma «il lettore può decidere quali conclusioni trarre», spiega Preston, «Non spetta a un fotografo sindacare su cosa sia giusto e cosa non sia giusto fare, quello che ne ho tratto io è che costruire città alberate non è sbagliato di per sé, ma magari potrebbe essere fatto in modo migliore. Si potrebbe decidere di piantare alberi giovani, per esempio».
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