Kwadzo Klokpah, l’orfano del Ghana che sfreccia sulla canoa con la nazionale paraolimpica – L’intervista
Duecento metri in poco più di 42 secondi. Una scheggia che vola sul pelo dell’acqua. A segnare questo tempo sul cronometro è Kwadzo Klokpah, un ragazzo di 30 anni che fra poche settimane volerà in Ungheria per rappresentare l’Italia ai mondiali paralimpici di canoa.
L’inizio della sua storia è lo stesso di molti bambini adottati, o quasi. Nasce in Ghana, uno degli Stati africani che si affacciano sul Golfo di Guinea. Orfano, passa la maggior parte del suo tempo in una missione dove c’è anche un volontario italiano, Stefano.
È lui che, quando aveva undici anni, riesce a portarlo in Italia. Qui, a Dervio, una cittadina sul lago di Lecco, trova una famiglia che non solo è disposta a aiutarlo ma è pronta anche a occuparsi della sua malattia: una patologia congenita che lo costringe già da piccolo a dover amputare una gamba.
Come sei riuscito a qualificarti ai mondiali in Ungheria?
«Qualche giorno fa, il 28 luglio, ho partecipato al raduno della nazionale italiana all’Idroscalo di Milano, dove hanno fatto il test di selezione. Non avevo il tempo di riferimento e quindi ho spinto al massimo fino ad arrivare a uno dei miei tempi migliori: 200 metri in 42,3 secondi».
Velocità pura sul pelo dell’acqua.
«Sì, a livello internazionale è la distanza più breve in canoa. Tutto si gioca in pochi istanti».
Questa non sarà la tua prima volta a un mondiale. Cosa ci sarà di diverso?
«È la terza volta che partecipo ai Campionati mondiali di canoa. Rispetto agli anni precedenti sono cresciuto tanto. Avevo ancora l’inesperienza della trasferta, senza contare il livello di preparazione. Non avrei mai pensato di raggiungere i 42,3 secondi».
Obiettivo per questa gara.
«Punto tanto alla finale: vorrebbe già dire essere nei primi nove. Questo è il primo obiettivo, il secondo poi è arrivare tra i primi sei e centrare la qualificazione per le paralimpiadi di Tokyo 2020».
Ti ricordi la prima volta che sei salito su una canoa?
«La prima volta in assoluto è stato con mio padre. Aveva comprato una canoa gonfiabile da due posti e abbiamo iniziato a uscire a Dervio. Era una cosa imbarazzante, avevamo zero coordinazione. Uno remava a destra e l’altro a sinistra».
In pratica stavate fermi.
«O stavamo fermi o giravamo intorno. Grazie a Dio dopo un paio di uscite, il canotto si è bucato e non ne abbiamo più parlato».
Quando hai iniziato ad allenarti davvero?
«Alle superiori, con i Canottieri di Lecco. Non tanto perché ero interessato a questo sport ma per non tornare a casa a studiare. Dopo qualche anno ho smesso per concentrarmi sulla scuola, e non ho più ripreso. Sono stato fermo otto anni. Nel 2015 ho ricominciato con un po’ più di impegno. Un anno dopo ero già alla prima gara nazionale: due bronzi e un argento».
E fuori dall’acqua, ora, cosa fai?
«Sono un fotografo, un massaggiatore sportivo e lavoro anche come guida turistica al Forte Fuentes di Colico, una costruzione militare di origine spagnola del 1200. Anche se gran parte del tempo ormai la passo in canoa ad allenarmi».
Quali problemi causa la tua malattia?
«In pratica è una malformazione alle gambe. Ho le ginocchia all’interno e le gambe che tendono all’infuori, una specie di x. Mi hanno amputato parzialmente una gamba. Faccio fatica a camminare, infatti preferisco muovermi in bicicletta».
Ho letto una storia strana che ha a che fare con il tuo primo giorno in Italia e una gomma da masticare.
«Eh sì. È il primo ricordo che ho dell’Italia. Dopo che sono atterrato, il fratello di mio padre è venuto a prendermi in macchina. Io stavo masticando un gomma. Mi sono addormentato, la gomma è caduta e si è sparsa su tutto il sedile posteriore. Credo che qualche traccia ci sia ancora».
Dervio non è una città qualsiasi. È sulla riva del Lago di Lecco, uno dei luoghi apprezzati dai turisti stranieri.
«Ai tempi la vedevo come una metropoli. Arrivavo da un villaggio di capanne, poi ho capito che era poco più di un paesino. Per me è diventata una casa. Qui ormai mi conoscono tutti quanti».
La pelle scura e una disabilità alle gambe. Tutto in una cittadina affacciata al lago, non in una metropoli multietnica. È stato difficile per te farti accettare?
«No, assolutamente. Forse solo una volta c’è stato un episodio spiacevole a scuola ma era una cosa fra compagni di classe e l’ho chiusa là».
Cosa vuol dire per te “integrazione”?
«Rispetto del Paese in cui ti trovi».
Parli il laghè? Il dialetto tipico del lago?
«Ovviamente. E mi piace sorprendere le persone quando lo faccio. Giusto qualche giorno fa ho conosciuto i nonni della mia morosa e ho parlato con loro in dialetto. Si sono stupiti molto. Per me il lago è casa, non riuscirei a vivere da nessuna altra parte».
Canzone preferita di Davide Van De Sfroos?
«Forse La Curiera».
Sei alla soglia dei 30 anni, un periodo che in questo momento, in Italia, spesso vuol dire precarietà. Come stai vivendo questa situazione?
«Dal mio punto di vista sento che non c’è tanta attenzione nel mercato del lavoro ad accogliere gente con disabilità. Ho lavorato un po’ da amici ma sto facendo fatica a trovare qualcosa di più stabile. Dall’altra parte quello che vedo è anche poca voglia di fare fatica. Io lavoro anche il sabato e la domenica, molti miei coetanei invece si rifiutano».
Forse l’unico vantaggio di questa precarietà è che possiamo ancora fantasticare un po’ su chi diventeremo in futuro. Tu ci hai mai pensato?
«A dire il vero no. Adesso voglio migliorare come atleta e crescere come fotografo e massaggiatore. Non penso troppo a chi diventerò».
Foto di copertina: Kwadzo Klokpah | Kwadzo a bordo di una canoa della nazionale
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