Quel macigno gettato tre settimane fa che ostruisce la strada del dialogo M5s-Pd
In queste ore frenetiche e convulse sono in molti a ipotizzare una convergenza tattica tra 5 Stelle e Pd per arginare la corsa al voto di Salvini ed evitare che diventi una marcia trionfale.
Si vocifera di un possibile «sì» alla richiesta di discutere, prima delle dimissioni di Conte, la mozione di sfiducia a Salvini già presentata dal capogruppo democratico Marcucci, e anche di un appoggio del Pd al voto finale a Montecitorio sulla legge taglia parlamentari, che in queste ore il M5s cerca disperatamente di tenere in piedi, per non vanificare il lavoro fatto con le tre votazioni già passate (due al Senato e una alla Camera).
Il fatto è che se ci fosse il sì definitivo del Parlamento, poi ci vorrebbero almeno sei mesi prima di riadeguare i collegi elettorali al mutato numero di seggi. Anche per evitare questo allungamento Salvini ha rotto gli indugi in pieno agosto.
Ma se le opposizioni (fin qui contrarie) appoggiassero i 5 Stelle, sia nel proposito di svolgere comunque la votazione, sia nel contribuire alla vittoria dei «sì», per la Lega sarebbe scacco matto. Ma perché questo succeda ci vorrebbe un solido canale di dialogo tra le due forze politiche.
A renderlo impervio è però un incomprensibile feroce attacco, sferrato solo tre settimane fa dallo stesso Luigi Di Maio contro i democratici, che la gran parte dello stato maggiore del partito di Zingaretti ritiene non superabile.
Ma cosa disse il capo politico del M5s di così grave? Testualmente:
«Io col partito di Bibbiano non ci voglio avere niente a che fare, col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare».
Un attacco obiettivamente fuori misura: e forse oggi è Di Maio il primo a rimpiangere di non esser stato zitto quel 18 luglio.
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