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Niccolò Campriani, il nuovo sogno dell’ex campione olimpico: portare tre rifugiati a Tokyo 2020 – L’intervista

Dopo il ritiro dalle gare, il tre volte campione olimpico è ripartito da un altro progetto: allenare tre rifugiati in vista dell'olimpiade in Giappone

Doveva essere la fine della sua carriera agonistica. E così è stato per Niccolò Campriani che dopo quell’ultimo sparo a Rio 2016, nella carabina 50 metri 3 posizioni, si era assicurato un posto per l’eternità nell’olimpo dei tiratori decidendo di appendere il fucile al chiodo. «Avrei dovuto prendere l’argento, ho approfittato dell’errore dell’altro finalista, il russo Sergey Komenskiy». Il tre volte campione olimpico, con due ori conquistati all’ultima olimpiade brasiliana torna a casa con un filo di imbarazzo. Proprio non se l’aspettava. Non poteva crederci. E così, per liberarsi da quel pensiero assillante decide di devolvere la differenza tra il primo e il secondo premio all’agenzia dell’Onu per i rifugiati.

Poi quel viaggio in Zambia su invito dell’Unhcr. «Era l’opportunità di visitare il campo per rifugiati di Meheba e di vedere con i propri occhi l’operato dell’agenzia. Me lo ricordo come fosse ieri, avevo una sensazione di smarrimento. Ti accorgi che la sfida è cosi grande che non sai come fare la differenza», racconta a Open Campriani. «Non puoi fare la differenza su scala universale, ma puoi farla nella vita di due, tre, cinque persone».

Il ritorno in Italia e il trasferimento a Losanna come Sports Intelligence Manager presso il Comitato olimpico internazionale. Ma quel viaggio in Zambia Campriani continua a portarselo dentro. Lui, ex atleta, sapeva di dover ricominciare, perché «non si può vivere di ricordi». E allora la decisione maturata, voluta e ponderata di guidare una squadra di rifugiati a Tokyo 2020. Un progetto che si è presto trasformato anche in un documentario: Taking Refugee: target Tokyo 2020 girato dal canale olimpico.

https://twitter.com/campriani/status/1154333160991330304

Perchè la decisione di donare il suo premio all’Unhcr?

«Per molti anni ben prima di Rio ero sempre stato un donatore dell’Unhcr. Nel caso specifico per quelli che sono i tempi attuali, credo che il tema dell’immigrazione stia diventando di grande attualità: è una delle grandi caratteristiche del ventunesimo secolo insieme al cambiamento climatico. Ognuno può, deve trovare il modo di aiutare nel suo piccolo. La mia era una goccia nell’oceano, ma credo che tante gocce possano fare la differenza».

Come è nato il progetto?

«A settembre 2017 ho deciso di trasferirmi a Losanna. Dopo il viaggio in Zambia ero intenzionato a far partire il progetto in Italia. Poi ho deciso di lavorare per il Cio e per forza di cose ho dovuto trasferirmi in Svizzera ma sapevo di non volerci rinunciare. Ho iniziato a contattare colleghi per capire se qualcuno era disponibile a darmi una mano. Doveva rimanere un’iniziativa personale fuori dall’orario di lavoro, così abbiamo contattato l’ufficio immigrazione locale, abbiamo presentato il progetto che conteneva una piccola serie di criteri per fare una prima scrematura: età, conoscenza dell’inglese ecc.

Niccolò Campriani durante la fase di selezione

Siamo partiti con una prima fase di colloqui: ogni fine settimana l’ufficio immigrazione mi metteva in contatto con due e tre ragazzi con cui prendevo il caffè la domenica. Volevo conoscerli bene, avere un primo contatto e cercare di inquadrare le loro motivazioni, la loro predisposizione. Essendo uno sport mentale ci sono delle caratteristiche che accomunano gli atleti: autoanalisi, metodologia, riflessione. Abbiamo fatto una preselezione di 15 ragazzi e poi un’altra giornata per valutare la predisposizione allo sport e alla coordinazione. Alla fine abbiamo coinvolto un ragazzo e due ragazze»

Chi sono gli atleti coinvolti?

«C’è Mahdi che viene dall’Afghanistan, ma è cresciuto in Iran. Luna viene da un paese africano e Khaoula dal Medio Oriente. Per motivi di sicurezza abbiamo deciso di non svelare i loro Paesi di origine e le loro storie nello specifico: quando saranno pronti per parlarne apertamente lo faranno, sono storie faticose, tragiche e quindi al momento non siamo entrati nei dettagli anche nelle varie riprese con l’olympic channel.

Mahdi ha 22 anni, Luna 25 e Khaoula 30 ed è mamma di un bambino di dieci mesi. Ci divertiamo molto durante gli allenamenti, viviamo dei momenti quasi infantili, momenti di felicità che sono così puri che sembra di avere davanti a te un ragazzo un adolescente perché non hanno avuto modo di vivere l’infanzia che abbiamo vissuto noi. A un certo punto ci sono frasi inaspettate che mostrano quello che è stato il vissuto, che mostrano una certa saggezza. Sono personalità molto complesse ma hanno tanto da raccontare e soprattutto hanno anche il modo giusto per farlo. Sono esperienze forti per noi, ma via via che decidono di aprirsi, giorno dopo giorno, conosciamo qualcosa di nuovo su di loro».

Come è stato il passaggio da atleta ad allenatore?

«Come tiratore da atleta ho sempre fatto l’allenatore di me stesso. Sono andato via dall’Italia nel 2009 e mi sono trasferito negli Stati Uniti dove mi allenavo con la squadra di college. Era un confronto continuo con i miei compagni di allenamento. Avevo scelto i miei compagni con cura, in base a tutta una serie di criteri; sceglievo sempre persone che ne sapevano più di me, non solo tecnicamente, ma che erano più volenterose di me, più appassionate di me, più generose.

L’ambiente è sempre contagioso e una delle mie qualità era, forse, quella di sapere selezionare l’ambiente in base alle necessità della mia carriera. Gestire tecnicamente degli atleti è facile, la parte più difficile è gestire piccoli drammi quotidiani. Parliamo di ragazzi che hanno una loro quotidianità perché uno dei lati importanti di questo progetto è che io continuo a lavorare, e loro continuano a studiare. Una delle condizioni era di non mettere in stand by la loro vita, ma di continuare a perseguire un percorso di studi. Lo sport è una parte del tutto: non può essere totalizzante».

Qual è l’obiettivo finale di questo progetto?

«Mi piacerebbe avviare un movimento. Credo che sia insita in ogni atleta, olimpionico, la voglia di restituire quanto abbiamo ricevuto e fare la differenza nella società di oggi. Le medaglie sono un mezzo per un fine, ti danno l’opportunità di avere quella prima pagina, quell’intervista che ti permette di rendere il mondo un posto migliore attraverso lo sport.
La mia carriera sortiva non poteva finire con l’ultimo colpo di Rio. Una parte della mia carriera è sì finita in Brasile, ma dopo la carriera da atleta c’è molto di più e quindi era giusto prendere questa responsabilità e cercare di fare la cosa giusta, per me, per questi ragazzi e mandare un segnale a tutti quei ragazzi che come me o si sono ritirati o stanno pensando di farlo.

C’è una vita dopo una carriera sportiva, a trentanni non si può vivere di ricordi e non puoi accettare che la parte migliore, quella più interessante della tua vita, sia ormai alle spalle. È un processo molto difficile dove uno deve ridefinire la propria identità e dove deve trovare nuovi obiettivi, nuove passioni e progetti simili aiutano molti ragazzi a fare questo passo: è la sfida più difficile, l’adrenalina, la passione, la motivazione sono al pari di una carriera sportiva. Tanti ci ricascano, ci sono questi rientri dopo uno, due, tre anni di sosta, a volte sono storie belle invece a volte è l’incapacità di fare quel salto. È giusto stringere i denti e rimboccarsi le maniche in un altro modo».

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