«Tutti contro Salvini!» Sì, ma per fare che cosa? E con chi?
Forse lui, Matteo Salvini, se lo aspettava. Fosse così sarebbe un capolavoro: quattro giorni dopo il suo annuncio di fine governo la scena politica è una Babele di proclami contrapposti, scontri, minacce di scissione, vorrei ma non posso. È come se il rischio di scioglimento del Parlamento avesse fatto esplodere tutte le contraddizioni latenti.
E il paradosso è che in tutto questo agitarsi l’unico che sta già facendo campagna elettorale è lui. Perché la Lega ha un progetto e una strategia, gli altri no. Salvini propone un governo di pulsioni autoritarie e securitarie, di sovranismo, di salvaguardia etnica, di primato della famiglia tradizionale, di detassazione al limite (e fuori) dei vincoli europei, di rapporto diretto tra leader e popolo. Cose che si vedono altrove, dal Brasile di Bolsonaro all’Ungheria di Orban, e non solo.
Ricette che da noi attraggono almeno il 40% degli elettori, se ci mettiamo il vagone di scorta di Giorgia Meloni. Quelle persone che affollano ogni piazza del tour del leader leghista non sono comparse, sono la dimostrazione eloquente della presa popolare delle parole d’ordine salviniane, e della stessa idea di avere un “uomo forte” da appoggiare, magari dandogli quei “pieni poteri” che sarebbero ben simboleggiati da un paio di stivali.
Ecco: fin quando non analizzeranno questi dati di fatto, sforzandosi di capire come si è arrivati a questa situazione, e dove, quando e perché così tanto popolo ha voltato loro le spalle, le altre forze (all’osso: il Pd) potranno al massimo dividersi sulle tattiche parlamentari, sui governi di sbarramento, su candidati e “chi sta con chi”.
Ma se non si sbrigano a ragionare su cosa vogliono proporre loro agli elettori di nuovo, non avranno null’altro da contrapporre a Salvini se non le accuse di autoritarismo, fascismo e simili, che al massimo lo rafforzeranno.
È come se la lezione dei danni prodotti nei lungo anni della contrapposizione a Berlusconi non fosse stata mai compresa: alla fine a toglierlo di mezzo in realtà furono il “tradimento” di Fini, una sentenza penale e l’incedere dell’età, e nel frattempo la sinistra – concentrata solo sulle scomuniche quotidiane – aveva dimenticato di aggiornare la sua analisi della realtà, della prospettiva, del cambiamento.
Quando poi si andò al voto, il Pd scoprì che non si era accorto che un quarto degli elettori, la sua stessa percentuale, aveva scelto Beppe Grillo, e che la medicina rigorosa di Monti e Fornero aveva scatenato nuovi effetti collaterali. Ma si illuse che fossero tutti fenomeni passeggeri. La fiammata renziana li convinse che le cose si fossero rimesse a posto da sole. La realtà di oggi racconta ben altro: che il Pd è un partito forte solo nei centri cittadini, nei quartieri alti, ed è scomparso dalle periferie. E i gruppi che stanno alla sua sinistra non stanno certo meglio.
Ma se ne chiedete la ragione a tutti loro, renziani o antirenziani, liberi uguali o diversi, non ve lo sanno dire. È questa la vera sconfitta storica, aver perso un ruolo storico di rappresentanza senza averne trovato un altro, e non sapere perché.
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