Ocean Viking e Open Arms ancora in mare con 507 persone a bordo. Il silenzio dell’Europa è «infame»
Sono 356 a bordo della Ocean Viking, 151 a bordo della Open Arms: 507 persone ancora in mare aperto, a bordo di due navi umanitarie, dopo essere state soccorse nel Mediterraneo centrale nei giorni scorsi. In attesa, sotto al sole di metà agosto, di un porto di sbarco sicuro: sicuro ai sensi del diritto internazionale.
Lo chiede all’Europa anche l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite: consentire lo sbarco alle 507 persone «attualmente bloccate in mare» sulle due navi delle Ong Sos Mediterranèe e Medici senza Frontiere e di Proactiva Open Arms. Non certo in Libia: «I violenti combattimenti, insieme alle segnalazioni di violazioni di diritti umani, fanno sì che quel Paese non possa essere considerato un porto sicuro e che nessuno deve essere riportato lì» ripete, ancora una volta, l’Unhcr.
Le condizioni meteo stanno per peggiorare, e «lasciare in alto mare persone che sono fuggite dal conflitto e dalle violenze in Libia significherebbe infliggere sofferenza ulteriore», dice Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale. «Devono poter ricevere l’assistenza umanitaria di cui hanno urgente bisogno» e «gli Stati dovrebbero condividere la responsabilità per la loro accoglienza dopo lo sbarco».
Día 12.
— Open Arms (@openarms_fund) August 13, 2019
El abandono.
151 personas invisibles siguen resistiendo en la cubierta #OpenArms pero cada día que pasa es más difícil.
Es infame el silencio de Europa.
La falta de humanidad y empatía les hace más culpables. pic.twitter.com/Dr88ab2Vi0
L’Unhcr ricorda che dopo il bombardamento del centro di Tajoura in cui sono morti 50 migranti, molti leader europei si sono detti scossi. Un sentimento che «deve ora tradursi in atti significativi di solidarietà verso le persone in fuga dalla Libia».
Poco tempo fa 150 persone hanno perso la vita nel più grande naufragio nel Mediterraneo del 2019. L’Agenzia dell’Onu chiede anche che venga «rafforzata la capacità di ricerca e soccorso nel mediterraneo centrale» ribadendo che il «ruolo delle navi delle Ong dovrebbe essere riconosciuto e sostenuto».
Salvini e il cortocircuito libico
La nave Ocean Viking «ha ottenuto l’indicazione del porto al quale far sbarcare gli immigrati soccorsi in mare», viene fatto sapere oggi da fonti del Viminale. È quello di Tripoli, spiegano. «Alla Ocean Viking sono stati comunicati anche riferimenti e contatti, per l’organizzazione dello sbarco», dicono dal Viminale.
È la fotografia del cortocircuito di fatto nel Mediterraneo centrale: sì, la Libia, se coordina i soccorsi nell’area, deve indicare un porto sicuro. Ma no, quel porto non può essere in Libia, perché il paese non è «porto sicuro» ai sensi del diritto internazionale.
Come funziona
In presenza di un evento Sar (search and rescue, ricerca e soccorso – per esempio un barchino in difficoltà), prima operavano attivamente i centri di coordinamento di Italia e Malta. Ora questi centri – fatto spesso segnalato dalle ong presenti nel Mediterraneo centrale – non prendono in carico il cosiddetto evento Sar e lasciano il coordinamento al centro di Tripoli (se il barchino in difficoltà si trova nella zona di competenza libica).
La Libia ha dichiarato la sua zona Sar all’International Maritime Organization nel 2018. Il centro di coordinamento di Tripoli dovrebbe quindi coordinare gli eventi Sar nella zona di sua competenza. Oltre ad alcuni problemi logistici come la scarsa conoscenza della lingua inglese – veicolo internazionale di comunicazione nei soccorsi – o il non rispondere sempre alle chiamate (con ritardi di tempo che possono significare la perdita di vite umane), il JRCC di Tripoli deve indicare l’eventuale porto di sbarco. Un “porto sicuro” ai sensi del diritto internazionale: dove non ci sia la guerra, dove i diritti umani vengano assicurati, dove si possa accedere alla richiesta di asilo, dove non ci siano pericoli di trattamenti inumani e degradanti. Non può trattarsi quindi – di nuovo, ai sensi del diritto internazionale – di alcuno scalo in Libia.
Se il JRCC indica Tripoli come porto di sbarco, sta indicando uno scalo illegale ai sensi del diritto internazionale. E una nave battente la bandiera di un paese che aderisce al diritto internazionale e alla Convenzione di Ginevra (qualsiasi nave europea, per esempio) può sì farsi coordinare dal centro di soccorso libico, ma non può sottostare all’indicazione di un porto che farebbe alla nave stessa, e al suo comandante, violare norme di diritto internazionale.
Anche Matteo Salvini, a luglio, ebbe a dire che la Libia, «in questo momento, non è un porto sicuro».
«Non riporteremo le persone in Libia»
E infatti: «Non riporteremo le persone in Libia in nessuna circostanza: per il diritto internazionale né Tripoli né alcun altro porto in Libia sono porti sicuri e riportare le persone lì sarebbe una grave violazione», fanno sapere – subito dopo la diffusione delle notizie del Viminale di cui sopra – Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere per la Ocean Viking.
La richiesta di un porto sicuro alla Libia, dicono le Ong, «è stata fatta lo scorso 9 agosto dopo il primo soccorso perché quella libica è l’autorità marittima di riferimento nell’area di ricerca e soccorso ed è ad essa che va richiesto un porto sicuro». Quindi ora, ancora, «restiamo in attesa dell’assegnazione di un porto che risponda ai requisiti del diritto internazionale».
Le due Ong hanno oggi formalmente chiesto alle autorità maltesi e italiane di assumere il coordinamento delle operazioni. Tra le persone a bordo della Ocean Viking, spiegano, «ci sono anche 103 bambini e minori sotto i 18 anni, di cui solo 11 viaggiano con un parente o un tutore. La stragrande maggioranza dei sopravvissuti racconta di aver subito detenzione arbitraria, estorsioni e violenze in Libia e mostrano le cicatrici delle torture».
Le persone a bordo, «inclusi i minori, hanno raccontato di essere state torturate con elettroshock, picchiate con bastoni e fucili o ustionate con plastica fusa. Mi dicono di sentire ancora il dolore delle ferite e delle cicatrici che hanno subito in Libia», spiega Luca Pigozzi, medico di MSF a bordo della Ocean Viking.
Open Arms: il Tribunale per i Minori di Palermo chiede chiarimenti ai Ministri
La Open Arms è ancora al largo, in acque internazionali, con 151 persone salvate – alcune di loro da 12 giorni – e oggi sollecita l’evacuazione di uno dei bambini ancora a bordo, con la sua famiglia per ragioni mediche.
🔴#ULTIMAHORA
— Open Arms (@openarms_fund) August 13, 2019
Solicitada evacuacion urgente por dificultad respiratoria de uno de los bebes y su familia. Estamos a la espera de respuesta por parte de Ias autoridades maltesas o italianas. #PuertoSeguroYa pic.twitter.com/PMg5yn9uFN
Nel frattempo il Tribunale per i Minori di Palermo ha risposto al ricorso presentato dai legali della Ogn spagnola il 7 agosto scorso. Un ricorso depositato «presso il Tribunale per i Minori e la Procura presso il Tribunale per i Minori di Palermo con il quale veniva richiesto lo sbarco immediato per i 32 minori a bordo della nostra nave e la nomina di un tutore per i 28 non accompagnati», spiega la Ong.
Il Tribunale ha fatto sapere ieri che le convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce «impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, di aver nominato un tutore e ottenere il permesso di soggiorno».
Diritti che, scrive il tribunale come riportato da Open Arms, «vengono elusi a causa della permanenza a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici».
Minorenni che si trovano «in prossimità delle frontiera con lo stato italiano impossibilitati a farvi ingresso per il divieto comminato in data 1 agosto 2019 dalle autorità italiane al capitano della nave sulla quale sono imbarcati e, quindi, in una situazione che equivale, in punto di fatto, ad un respingimento o diniego di ingresso ad un valico di frontiera».
Ecco perché il Tribunale «ha ritenuto di chiedere chiarimenti ai Ministri rispetto a una situazione giudicata palesemente illegittima e violativa di diritti fondamentali e chiede infatti “di conoscere quali provvedimenti le autorità in indirizzo intendano adottare in osservanza della normativa internazionale e italiana sopra richiamata».
In copertina Facebook Hannah Wallace Bowman / MSF
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