Il partito di Bibbiano e quello di Bibbona: le due anime del M5s e l’intesa (dura) col Pd
Nel M5s c’è la tensione che sempre accompagna la vigilia delle scelte importanti e impegnative quando a decidere è una comunità di iscritti e non un capo assoluto. Ma in questo caso c’è anche molto di più: stavolta la scelta del Movimento è come un esame vitale. Sul tavolo c’è l’alleanza proprio col partito in alternanza al quale è nata la creatura di Beppe Grillo.
I Vaffa Day, la scelta delle liste elettorali locali, la grande sfida delle elezioni politiche 2013, gli incontri per dire no in streaming, l’asfissiante contrapposizione al renzismo, la mozione di sfiducia alla Boschi, la guerra del referendum, le manette di Giarrusso per i genitori di Renzi, e infine – è cronaca di sette settimane fa – il «Mai al governo col partito di Bibbiano, il partito che in Emilia-Romagna ruba i bambini alle famiglie con l’elettroshock solennemente scandito nel video di Luigi Di Maio».
Come è possibile superare da un giorno all’altro tutto questo? Dicono i fautori dell’accordo: se lo supera il Pd, che di tutti questi capitoli è stato “vittima”…
No, rispondono gli altri: quello è un partito di potere, pur di tornare al governo può dimenticare questo è altro. E poi ha una giustificazione che noi non possiamo usare: si allea col M5s per battere l’avversario principale, che per lui è Salvini, la destra, il sovranismo. Come possiamo dirlo noi, che ancora staremmo al governo con la Lega se non avesse tentato di farci fuori?
Eppure è proprio da queste ultime parole che trae linfa la corrente del governo col Pd. «Salvini ha tentato di farci fuori? E noi lo neutralizziamo, lo teniamo tre anni all’opposizione, lo facciamo sgonfiare».
Questo non è solo il mood di una parte del Movimento, ma quel che ha pensato Beppe Grillo quando ha visto che di fronte all’avviso di sfratto di Salvini i vertici 5 stelle si erano rassegnati al voto anticipato. È lì che ha deciso di tornare in campo, scrivere il post contro le elezioni, e soprattutto convocare a Bibbona i vertici sostanziali e formali del M5s, non solo «Luigi e Dibba», ma anche il presidente della Camera, la vicepresidente del Senato, i due capigruppo. Tutti nella villa al mare di Beppe, tanto per sancire il grande ritorno.
E lì, a quel tavolo, è stato davvero chiaro: «Salvini è un traditore e la pagherà cara. Ma non nelle urne, perché se ci andiamo ora scompariamo. Può darsi che un giorno il M5s non ci sarà più, ma non ha senso suicidarci oggi, accettando lo scioglimento di quelle Camere in cui siamo un terzo dei parlamentari».
E ancora: «Ma siamo impazziti? Facciamo il governo col Pd e ci portiamo anche la parte delle idee salviniane che funzionavano anche per noi. E così compriamo anche tempo per tornare a crescere: perché sia chiaro, Salvini ci voleva fottere perché in un anno e poco più di governo insieme ci ha dimezzati, rubandoci voti. Sembrava Batman e Luigi pareva Robin».
Davanti al fondatore tutti tacevano, compresi quelli che avevano già deciso di cominciare la campagna elettorale e soprattutto quelli che vedono nel Pd l’incarnazione del peggio.
Il partito di Bibbona era nato, per chiudere un accordo vantaggioso, e mettere in sicurezza il Movimento. Ma contemporaneamente partiva il mugugno, che gradualmente è diventato protesta aperta, anche se senza enfasi, perché Grillo è Grillo, e se non ci fosse non esisterebbe il M5s. Ma il dissenso si è fatto corposo, corroborato dalla lotta per i ruoli nel gruppo dirigente: «Tratta Di Maio, ed è l’unico che avrà un ruolo sicuro e a sua scelta», il leit motiv. «Conte ha ridicolizzato Salvini mentre Luigi taceva, e subito noi lo sacrifichiamo. Faceva ombra?».
Tutto questo e altro arriva da giorni sul terminale di Grillo, e più “scientificamente” su quello di Davide Casaleggio, che ama molto poco il Pd ma analizza con freddezza professionale la situazione. Al di là dei messaggi postati, Open ha potuto verificare che sono arrivati all’indirizzo di Grillo 76mila mail, molte di più di qualsiasi altra occasione passata. Esse sono in chiara maggioranza favorevoli all’apertura al Pd.
Ma a Beppe e al figlio dell’altro fondatore sono arrivati anche altri messaggi, e telefonate: scordatevi di fare qualsiasi accordo senza consultarci attraverso la votazione sulla piattaforma Rousseau. Ma anche un altro elemento, chiaro e diffuso, dalla base è dai gruppi parlamentari: se non c’è Conte non passa nessun governo. Lui ha difeso il nostro onore, se cediamo è una vergogna. Qui, certo, c’entra molto anche la lettura da parte di molti nella comunità M5s del Fatto Quotidiano, molto schierato a favore del premier uscente. Ma non è solo una posizione “Made in Travaglio”.
È per questo che ieri pomeriggio Grillo ha pubblicato il suo nuovo post, magnificando l’operato di Conte e innalzandolo tra gli “Elevati”, la sua stessa categoria, come un senatore a vita del grillismo. Il segnale era chiaro: il governo si fa solo se il professore resta a Palazzo Chigi. È toccato a Di Maio comunicarlo a sorpresa ieri sera a uno stupefatto Zingaretti, al quale fino alla sera prima i 5 stelle avevano solo espresso preferenze per il professor Giovannini e per Massimo Bray.
E di fronte alla reazione del segretario del Pd è stata effettivamente evocata la contropartita del ruolo di Commissario Europeo per un esponente dem. Anche perché tra i 5 stelle quel posto aveva un solo possibile candidato, appunto Conte. Ora però la strada è molto stretta, e la deadline di martedì imposta da Mattarella (in realtà mercoledì per le forze maggiori) si avvicina. Non sarebbe una sorpresa se in queste 48 ore un tweet ci informasse di un altro incontro “di famiglia” a Bibbona o altrove
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