Il giorno decisivo: si lavora su un Conte-Zingaretti. Di Maio spera ma il segretario Pd teme la trappola
Il Quirinale già venerdì era stato chiaro, e il messaggio era questo: «Entro il pomeriggio di lunedì ci dite se avete trovato l’accordo, perché il Presidente non accetta altri giri interlocutori. E le consultazioni di martedì finiscono o con l’incarico di fare il governo al nome che concorda una precisa maggioranza o con un’altra convocazione, quella del premier tecnico che porterà il paese alle elezioni. Il tempo è scaduto».
Così oggi è già il giorno del giudizio. Dopo la snervante serie di botta e risposta di ieri, Conte sì Conte no, i nodi vanno tutti sciolti nelle prossime ore. È una partita a poker vitale sia per Di Maio che per Zingaretti.
Il primo si gioca tutta la sua “seconda vita” dopo l’esperienza a saldo negativo dei quattordici mesi gialloverdi, con la Lega raddoppiata e il M5s dimezzato alle Europee e il tradimento finale a freddo dell’alleato personale Salvini.
Dovesse fallire la trattativa col Pd, con un all in sul nome di Conte che implica solo successo o sconfitta, resterebbe solo la strada delle elezioni, e a guidare la campagna elettorale e il sogno di rimonta sarebbe proprio il premier uscente e non Di Maio.
Ma se l’accordo invece andasse in porto sarebbe una vittoria in grado di tacitare la fronda interna, mai tanto evidente come adesso, nonostante il ritorno in campo di Beppe Grillo, vero ispiratore dell’apertura al Pd.
Ancora più contrastato il clima nel Partito democratico. Dove c’è ben visibile una ampia maggioranza favorevole all’accordo, che invita a ingoiare senza tanti formalismi la rinuncia al veto per Conte.
«Se portiamo a casa la cancellazione dei decreti sicurezza e inseriamo una buona squadra di governo, dopo tre mesi nessuno si ricorda che abbiamo accettato il premier che lasciò fare a Salvini il bello e il cattivo tempo». È questo il loro ragionamento, che unisce i due dirigenti in passato più distanti tra di loro sull’idea di un governo col M5s, Renzi e Franceschini: ma in politica capita anche questo.
Ma il fatto è che a dire «no» esplicitamente al Conte bis era stato proprio il segretario, e ora dovrebbe essere Zingaretti a rimangiarsi quel veto, non personale – come spiegò – ma necessario per evitare che il Pd paia la ruota di scorta della Lega con il vertice del governo che resta invariato.
Non solo: tutto il gruppone governista preme perché il segretario entri personalmente nell’esecutivo, a garantirne il pieno coinvolgimento del partito. Il che potrebbe avvenire solo con il ruolo maggiore possibile, quello di vicepremier unico, a capo della squadra dei ministri Pd.
Da un lato una prospettiva allettante (anche se Zingaretti dovrebbe dimettersi da governatore della Regione Lazio), che ne farebbe il candidato premier naturale alle prossime elezioni.
Dall’altro però il rischio di finire impallinato e bruciato con tutto il governo dalle scelte successive di chi resta fuori, per scelta sua e veto del M5s, ma controlla saldamente i gruppi parlamentari del partito. Sempre lui, il senatore semplice di Firenze…
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