Amazzonia: «La vera minaccia è l’emissione di anidride carbonica. 4 bombe atomiche di Hiroshima al secondo» – L’intervista
L’Amazzonia continua a bruciare e i leader del mondo provano a mettere un freno alla deforestazione che sta colpendo la foresta sud-americana. Dal vertice del G7 di Biarritz appena concluso, i 7 paesi più industrializzati al mondo hanno promesso uno stanziamento di risorse pari a 20 milioni di euro per fermare il disastro ambientale che ha colpito il polmone del mondo. Donazione che, però, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha già respinto.
Mentre le fiamme continuano ad espandersi, organizzazioni ambientali e capi politici puntano il dito proprio contro il leader eletto a inizio anno colpevole di aver traghettato il Paese verso politiche ostili alla preservazione dell’ambiente e del delicato ecosistema della foresta amazzonica. Ma costa succedendo veramente in Amazzonia? Ne parla a Open Giorgio Vacchiano, ricercatore presso il dipartimento di scienze Scienze Agrarie e Ambientali dell’università di Milano.
Cosa sta provocando questi incendi?
«Dall’inizio della stagione secca si sono rilevati un certo numero di incendi in tutto il Brasile, in particolare nel bacino amazzonico. Una piccola parte ha cause accidentali ma la stragrande maggioranza è dovuta all’uomo, alle pratiche connesse all’uso agricolo e pastorale. Dai piccoli contadini ai proprietari di aziende, alcuni in modo legale altri in modo illegale, approfittando della grande difficoltà di controllare un territorio cosi vasto, appiccano un fuoco come strumento per liberare i terreni dagli alberi, rendendoli disponibili per colture agricole o per far pascolare gli animali.
Il motivo è economico, che non è una brutta parola di per sé. Per tanti contadini e proprietari terrieri è sinonimo di sopravvivenza, l’utilità è che se liberi un terreno dagli alberi diventa disponibile per coltivare, la soia nella grande maggioranza dei casi, o per far pascolare i tuoi animali la cui carne viene venduta all’estero. In Bolivia, invece, liberare il terreno vuol dire poter scavare nel sottosuolo più liberamente e accedere alle risorse minerarie che abbondano in quella zona.
Contrariamente ad altri Continenti dove si verifica la stessa pratica, come in Africa, le colture e gli animali non sono destinati all’autoconsumo; i prodotti vengono esportati nei paesi più sviluppati come l’Unione europea, la Cina e gli Stati Uniti. Basti pensare che l’export vale circa il 35% del pil brasiliano: un terzo dell’economia del Paese è quindi basata sull’esportazione di prodotti agricoli che sono ricavati a discapito delle foreste».
Si tratta di un anno record per gli incendi nella foresta Amazzonica?
«In realtà dagli anni duemila, in avanti, ci sono state annate con più incendi di quelli che vediamo quest’anno. Ma se ne parla solo quest’anno per tutta una serie di fattori: è aumentata la sensibilità sull’argomento. Abbiamo avuto da poco grandi incendi in Siberia che sono stati senza precedenti e quindi c’è una ricettività maggiore sul tema. C’è stato inoltre l’episodio del fumo degli incendi che è arrivato a San Paolo a migliaia di chilometri dall’Amazzonia. Quando viene coinvolta una grande città fa più notizia e rispetto a cinque, dieci anni fa, c’è in generale, a livello globale, una maggiore sensibilità sulle tematiche ambientali, vuoi per Greta Thunberg o altri motivi.
Dall’altra parte possiamo dire che non è stato un anno record per gli incendi. Significativi sono stati invece gli ettari di foresta scomparsi. Tra gli anni 90 e 2000 si perdevano 20-25mila chilometri quadrati di foreste all’anno. In seguito, grazie all’avvio di politiche internazionali, come il protocollo di Kyoto, il Brasile è riuscito ad abbassare questa cifra e ad arrivare a 4-5mila chilometri quadrati all’anno. Stiamo parlando comunque di una cifra enorme e problematica, ma che sembrava far presagire una diminuzione del problema.
Nel 2018 e nei primi mesi del 2019 gli ettari deforestati rilevati da satellite sono aumentati enormemente e si pensa che per la prima volta dopo dieci anni supereranno di nuovo la quota di 10mila km quadrati».
Quanto è stato l’impatto dell’amministrazione Bolsonaro su questi cambiamenti ambientali?
«In molti associano questo cambiamento, in peggio, con il cambiamento avvenuto ai vertici della presidenza brasiliana. È un’associazione di idee che viene da fare anche perché le dichiarazioni durante la campagna elettorale sicuramente andavano in una direzione di maggiore sviluppo commerciale dei territori amazzonici e alcuni atti della sua amministrazione sono andati in questa direzione.
Nell’ultimo anno Bolsonaro ha tagliato del 20 per cento il budget dell’agenzia che opera controlli ambientali. Tuttavia, gli incendi di quest’anno non sono un problema esclusivo del Brasile. Anche la Bolivia, che non è governata da un’amministrazione dello stesso colore politico, sperimenta un numero di incendi molto alto e una deforestazione record.
Le cause sono in parte diverse; in Bolivia è molto più forte la fame di terreni per le risorse minerarie, è un po’ meno importante l’allevamento da agricoltura. C’è una grande corruzione endemica che rende vano ogni tentativo di agire in questo senso. Quando sono in atto dei meccanismi di mercato e criminalità, come nell’estrazione di risorse minerarie in questo settore guardare solo a quello che fa un’amministrazione potrebbe non essere sufficiente».
Quanto pesa la richiesta dei paesi industrializzati di prodotti brasiliani?
«Nel 2008 è stato stilato un rapporto, “The impact of EU consumption on deforestation”, per analizzare quanta foresta è stata persa a causa dello sfruttamento del terreno, sia per colture, che per il pascolo. In questi 18 anni di monitoraggio, dal 1990 al 2008, abbiamo stimato che i prodotti consumati nell’Ue sono stati responsabili di 9 milioni di ettari di deforestazione in tutto il mondo, anche in Indonesia o in altre aree. Vuol dire circa 5mila km quadrati ogni anno.
I dati non sono aggiornati, ma un fattore che negli ultimi anni ha contribuito ad accelerare la deforestazione è il ruolo della Cina. Il Paese, che è un grande consumatore di soia, ha conosciuto una crescita vertiginosa e ha iniziato ad importare sempre più carne.
Anche se l’Europa provasse a ridurre il suo consumo di carne, o i mangimi importati dai Paesi tropicali non basterebbe per arrestare la deforestazione se anche la Cina non facesse lo stesso. In ogni caso, l’Europa no sembra star andando in questa direzione. Due settimane fa è stato approvato il nuovo accordo commerciale tra l’Ue e i Paesi dell’area Mercosur rendendo più facile l’esportazione, anche di carne, di prodotti dai paesi sud americani all’Europa. Parliamo di 100mila tonnellate di carne di vacca e 180mila di pollame, pollame alimentato a soia ».
Cosa accadrà alla popolazione indigena?
«Gli indigeni hanno raggiunto un equilibrio con la terra e hanno riconosciuto l’importanza della terra come fonte di sostentamento. L’equilibrio nel produrre e nel vivere insieme a lei ricavando quello di cui hanno bisogno ma senza esagerare.
In seguito alla riduzione dell’area di foresta, queste persone, dipendendo dalla terra per la loro sopravvivenza, dovranno pian piano andarsene, spostarsi nelle città. E la perdita maggiore sarà per il Paese perché è proprio questa cultura che in questo momento potrebbe salvarci».
Quanto piantare alberi è una soluzione alla deforestazione?
«Parliamo di una soluzione a metà. Rischia di trasformarsi in una scusa: deforestiamo tanto piantiamo alberi altrove. Continuiamo a bruciare petrolio e carbone e piantiamo alberi per riassorbirlo.
Potrebbe essere sufficiente come ciclo del carbonio, ma i conti non tornano più dal punto della biodiversità. Una foresta primaria, tropicale, un’ecosistema complesso come quello amazzonico non può essere riprodotto piantando degli alberti. Si stimano che ci siano ancora migliaia di specie di insetti nel sottosuolo delle foreste tropicali che non conosciamo e rischiamo di perderle ancora prima di venirne a conoscenza».
Stiamo perdendo il polmone della terra?
«Molti si sono allarmati per questi incendi a causa della perdita di ossigeno, ma se non individuiamo il problema corretto non avremo neanche la soluzione. Tra il 70 e l’80 per cento dell’ossigeno che viene prodotto sulla terra viene prodotto dalle alghe sintetiche degli oceani, sono piccolissime ma ce ne sono tantissime. Il resto, 20-30 per cento è prodotto dalla vegetazione terrestre.
Ma non tutte le foreste producono ossigeno. Con la fotosintesi gli alberi succhiano anidride carbonica dall’aria e restituiscono ossigeno. Gli alberi, però, devono anche mantenersi in vita, le loro cellule devono respirare. Quindi con la respirazione si consuma ossigeno e si produce anidride carbonica. Se un albero cresce prevale la fotosintesi perché un albero deve creare i propri tessuti quindi accumula carbonio è ha una produzione netta di ossigeno. Quando l’albero diventa più maturo e invecchia diventa grosso e la respirazione può prendere il sopravvento e neutralizzare l’effetto della fotosintesi. Quindi le foreste con alberi più grandi, più maturi, non producono cosi tanto ossigeno come quelle giovani che magari sono in crescita.
Negli anni passati, soprattutto quando ci sono stati più incendi e deforestazioni l’Amazzonia ha iniziato a produrre più C02 che ossigeno. È un numero molto difficile da calcolare che varia di anno in anno. Dalle fonti che ho consultato l’Amazzonia produce dallo 0 al 6 per cento dell’ossigeno prodotto ogni anno sulla terra. Va anche tenuto in considerazione che nella nostra atmosfera di ossigeno c’e ne tantissimo. Si tratta di 1.160.000 miliardi di tonnellate. Infatti l’ossigeno è il 23.2% dell’atmosfera in termini di massa relativa e l’atmosfera ha una massa totale di 5.000.000 di miliardi di tonnellate.
Le emissioni di CO2 assomigliano a una secchiata in una vasca molto piccola. Gli incendi emettono C02: 230 milioni di tonnellate dall’Amazzonia, secondo il Servizio europeo Copernicus di monitoraggio dell’atmosfera, e fino a 8 miliardi di tonnellate globalmente, quest’ultimi dati stimati dal Global Carbon Project.
L’effetto delle nostre emissioni sul bilancio energetico del pianeta è lo stesso di 4 bombe atomiche di Hiroshima, in relazione al calore che rilasciamo nell’atmosfera con l’effetto serra. Ogni secondo. È questo il vero pericolo: a questo ritmo, tra 10-12 anni avremo emesso tanta anidride carbonica da alterare il clima della Terra per alcuni secoli, raggiungendo una temperatura media di 1.5 gradi in più rispetto all’era preindustriale».
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