Usa, Trump silura su Twitter il suo consigliere della Sicurezza nazionale (e non è il primo)
Il presidente americano Donald Trump ha comunicato su twitter il licenziamento del consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ritenuto il falco della politica estera. «Ieri sera ho informato John Bolton che i suoi servizi non sono più necessari alla Casa Bianca», ha scritto il presidente degli USA. «Ero in forte disaccordo con molti dei suoi suggerimenti, così come altri nell’amministrazione, e quindi ho chiesto a John le sue dimissioni, che mi sono state presentate stamattina».
….I asked John for his resignation, which was given to me this morning. I thank John very much for his service. I will be naming a new National Security Advisor next week.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) September 10, 2019
«Ringrazio molto John per il suo servizio. La prossima settimana nominerò un nuovo consigliere per la sicurezza nazionale», ha aggiunto.
Da quanto scrive Bolton su Twitter, però, sarebbe stato lui stesso a rassegnare le dimissioni: «Ho offerto le mie dimissioni ieri sera e il presidente Trump mi ha detto “parliamo domani”».
I offered to resign last night and President Trump said, “Let’s talk about it tomorrow.”
— John Bolton (@AmbJohnBolton) September 10, 2019
Chi è John Bolton
Ex ambasciatore all’Onu, falco neo-conservatore della politica estera con look da sceriffo, fortemente filo-israeliano, Bolton è il terzo consigliere per la sicurezza nazionale che lascia l’Amministrazione Trump in due anni e mezzo. Incarico in cui è durato qualche mese in più del predecessore H.R. McMaster, che aveva rimpiazzato l’ex generale a tre stelle Michael Flynn, rimasto nell’incarico appena 22 giorni.
Diplomatico di lungo corso, 70 anni, Bolton ha ricoperto diversi incarichi nell’amministrazione di Ronald Reagan negli anni Ottanta, scalando poi i gradi nelle amministrazioni dei due presidenti Bush, padre e figlio. È stato uno dei più ferventi fautori dell’invasione dell’Iraq nel 2013 decisa da George W. Bush, che nel 2005 lo aveva nominato ambasciatore Usa al Palazzo di Vetro – un’istituzione che Bolton ha apertamente criticato arrivando a metterne in discussione la legittimità.
Fu protagonista di duri scontri verbali con le controparti cubane e iraniane, ed è arrivato a proporre un attacco preventivo contro le centrali atomiche di Teheran. All’Onu, ha resistito solo un anno perché il Congresso gli ha negato un secondo mandato. È stato consigliere per la politica estera dell’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney, battuto da Barack Obama nel 2012.
Nel 2015 Bolton suggerì di risolvere la crisi mediorientale con la creazione di uno stato tra Siria e Iraq: il Sunnistan. Alle presidenziali del 2016 è saltato sul carro di Trump ed è stato preso in considerazione come possibile ministro degli Esteri. È entrato formalmente in carica alla Casa Bianca il 9 aprile 2018.
Tutti gli ex del Presidente
L’uscita dalla Casa Bianca del consigliere per la sicurezza nazionale, il terzo in poco più di due anni e mezzo, è l’ennesima dimissione nello stretto entourage del presidente americano, Donald Trump. Da quando è entrato alla Casa Bianca, nel gennaio 2017, decine di collaboratori più o meno diretti hanno lasciato l’incarico o sono stati defenestrati, spesso con un tweet e sempre in modo brutale.
- Kirstjen Nielsen, avvocata nata in Colorado, 46 anni, ministro dall’ottobre 2017, fautrice della politica della “tolleranza zero” sui migranti e sostenitrice di una linea dura sulla separazione tra genitori e figli, era finita al centro delle accuse dei democratici dopo la morte di una bambina di 7 anni, del Guatemala, tenuta lontana dai genitori e ricoverata in un ospedale del Texas. Potrebbe aver pagato la scelta di bocciare la candidatura di Ron Vitiello, esperto in politiche migratorie, alla guida dell’ufficio speciale che deve occuparsi del confine con il Messico. È il terzo ministro dell’Interno cacciato da Trump.
- Jim Mattis, ministro della Difesa. Soprannominato «cane pazzo», il generale ha lasciato in opposizione alla decisione del presidente di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria e di ridurre la presenza in Afghanistan.
- Ryan Zinke, segretario all’Interno, ha gestito 500 milioni di acri di suolo pubblico, compresi 59 parchi nazionali, nonché l’assegnazione delle licenze per estrazione di carbone, petrolio e gas. Arrivato a cavallo nel giorno del suo insediamento, ex Navy seal, si è dimesso perché al centro di diverse inchieste per spese eccessive e possibili conflitti d’interesse.
- John Kelly, capo di gabinetto della Casa Bianca. Era il più stretto consigliere di Trump ma poi si è consumata una rottura, complice forse anche i cattivi rapporti di Kelly con la First Lady Melania. Lascerà l’incarico alla fine dell’anno e verrà sostituito da Mick Mulvaney.
- Jeff Sessions, ministro della Giustizia, si è dimesso «su richiesta di Trump» a novembre 2018 ma era da tempo nel mirino del presidente perché a marzo 2017, subito dopo il suo insediamento, aveva ricusato sè stesso da qualsiasi ingerenza nel Russiagate.
- Nikki Haley, ambasciatore alle Nazioni Unite. Ha annunciato a sorpresa ai primi di ottobre la decisione di lasciare l’incarico alla fine dell’anno, senza fornire alcuna spiegazione chiara. Figlia di immigrati indiani, dal carattere molto forte, era diventata la donna più in vista dell’amministrazione. Ha promesso comunque che farà campagna per la rielezione di Trump nel 2020. Sarà sostituita dalla portavoce del dipartimento di Stato, Heather Nauert, ex anchorwoman di Fox News, l’emittente preferita di Trump, chiamata nell’amministrazione senza alcuna esperienza politica e divenutane la stella nascente.
- Scott Pruitt, ministro dell’Ambiente, si è dimesso il 5 luglio. Responsabile dell’agenzia per la protezione dell’ambiente che aveva minuziosamente smantellato il programma ambientalista di Barack Obama, è rimasto ingolfato in una serie di scandali legati al suo utilizzo dei fondi pubblici. Trump ha fatto capire che nominerà al suo posto il ministro ad interim, un ex lobbista del settore del carbone e dell’energia.
- Rex Tillerson, segretario di Stato. L’ex ad di ExxonMobil è stato silurato il 13 marzo dopo mesi di tensioni e di umiliazioni da parte di Trump sulla strategia diplomatica americana, per Iran e Corea del Nord. È stato sostituito dal capo della Cia, Mike Pompeo. In una recente intervista, Tillerson ha detto che non è stato facile lavorare con il presidente perché è indisciplinato e non gli piace leggere, e che a volte gli chiedeva cose illegali. L’inquilino della Casa Bianca ha risposto su Twitter dandogli dell’«ottuso».
- Steve Bannon, capo stratega. Il «presidente Bannon» come era stato soprannominato il potente consigliere-ombra, era stato l’architetto della campagna nazional-populista di Trump e poi responsabile della strategia alla Casa Bianca. Vicino all’estrema destra, nei mesi passati nell’amministrazione si è scontrato però con gli altri consiglieri di Trump e se ne è andato nell’agosto 2017, assicurando però che continuerà a sostenere Trump.
- Gary Cohn, consigliere economico. Ex presidente della banca d’affari Goldman Sachs, si è dimesso a marzo dal ruolo di principale consigliere economico di Trump per protesta contro la decisione del presidente di imporre nuovi dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
- Micheal Flynn e Hr McMaster, consiglieri per la Sicurezza nazionale. Il primo, generale a riposo, ha resistito solo 22 giorni e poi è rimasto invischiato nel Russiagate per i suoi contatti con la Russia e ha riconosciuto di aver mentito all’Fbi. Il suo sostituto, HR McMaster, anche lui generale a tre stelle, è durato appena un anno ed è stato sostituito dall’ex ambasciatore all’Onu, John Bolton.
- Sean Spicer, Reince Priebus e Anthony Scaramucci, portavoce e direttori della comunicazione del presidente. Nei sei mesi in carica, Spicer è finito più volte nel mirino a causa delle sue gaffe; è stato licenziato il 21 luglio 2017, una settimana prima di Reince Priebus, capo della comunicazione. La vera esperienza-lampo è stata però quella di Anthony Scaramucci: alla guida della comunicazione ha resistito appena 6 giorni, dal 26 luglio del 2017 al 31 luglio.
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