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Scuola, quando i neolaureati salgono in cattedra: «Insegnare è il mio sogno, ma ho imparato sulla pelle degli studenti»

13 Settembre 2019 - 06:14 Olga Bibus
Se diventare insegnanti di ruolo è diventato quasi impossibile tra governi che cambiano e concorsi che saltano, per diventare supplente a volte basta un diploma. Ma quanto sono preparati i docenti che salgono in cattedra senza abilitazione e con la sola messa a disposizione?

Mad, Bes, Fit, Tfa, Gae. Il mondo della scuola è pieno di sigle, incomprensibili ai non addetti ai lavori, ma anche a chi si trova catapultato in classe qualche giorno dopo la laurea o addirittura con il solo diploma. I governi in Italia continuano a cambiare, i concorsi per i docenti a saltare, e vengono continuamente riveste le misure pensate per arginare il problema del precariato nelle scuole.

Dal Fit al concorso: le promesse mancate dei governi italiani

Il Fit, per esempio, (sigla che sta per Formazione iniziale e tirocinio) è stato introdotto con il decreto legislativo 59/2017, poi abolito, alla luce delle novità introdotte dalle legge di bilancio 2019. Si trattava di un percorso formativo specifico per chi voleva insegnare nella scuola secondaria, di primo o secondo grado. Al termine di un percorso di tre anni il Fit prevedeva l’immissione in ruolo. Puff. Scomparso. Al suo posto però l’ex ministro dell’Istruzione Marco Bussetti aveva promesso entro il 2019 il concorso abilitante, in particolare per chi insegna in modo continuativo da almeno tre anni. Nel frattempo il governo è cambiato e anche il ministro dell’Istruzione. Ora il concorso rischia di slittare al 2020. Intanto però le scuole stanno riaprendo le porte e al suono della campanella i banchi si riempiono di studenti che non sempre trovano qualcuno in cattedra ad attenderli.

L’anno della “supplentite”

Quello 2019/2020 è stato già rinominato come «l’anno della “supplentite“». Secondo le stime del Miur quest’anno verranno chiamati circa 150mila supplenti. I sindacati parlano di 200mila. Gli insegnanti mancano soprattutto al centro-nord. In alcune regioni le cosiddette Gae, graduatorie a esaurimento, sono da tempo esaurite. E i presidi sono costretti a chiamare chi si è candidato con le Mad, le messe a disposizione (vengono consegnate direttamente dagli aspiranti insegnanti a mano o inviate per mail). È così che finiscono in cattedra neolaureati e, a volte, anche i diplomati. Se, da un lato, le messe a disposizione rappresentano un’opportunità per molti giovani di affacciarsi al mondo del lavoro, dall’altro, chi finisce in cattedra si trova catapultato, senza mappa, nella giungla della scuola, fatta di burocrazia, registri da compilare, programmi da rispettare, consigli di classe da preparare.

Fonte: Pixabay

Le esperienze

«Io mi sono laureata alla magistrale nel 2015 e dopo due settimane ero in classe a insegnare», racconta Mabel Giulianini docente nelle scuole medie nel Ravennate. Ha 29 anni e lavora ormai da 4. I primi due grazie alle messe a disposizione, poi nel 2017 è riuscita a entrare in terza fascia (quella riservata a chi non è abilitato all’insegnamento). «Molte cose sei costretto a impararle sul campo, non te le insegna nessuno all’Università, entri in classe e devi cavartela da solo». Dello stesso parere è Matteo Polisca, insegnante di liceo. Anche Polisca ha iniziato a lavorare subito dopo la laurea grazie alle messe a disposizione: «Quando sono entrato in classe per la prima volta avevo alle mie spalle come esperienza un misero tirocinio di qualche ora, non sapevo nulla, non sapevo quello che dovevo fare, non sapevo nemmeno compilare il registro elettronico, sono cose che non si imparano all’Università. Allora cerchi di orientarti pian piano guardando gli altri, chiedendo consigli».

E il docente ammette: «In un certo senso impariamo sulla pelle degli studenti. Quando cominciamo a lavorare siamo degli abili teorici, ma non abbiamo idea di come si insegna». Anche Irene Manfredini insegna nelle scuole secondarie dal 2015 facendo slalom tra scuole pubbliche e paritarie, ma con continuità. «Quando ho messo piede a scuola – dice – non sapevo nemmeno cosa significasse “Bes” (bisogni educativi speciali ndr.) e avrei dovuto redarre un programma specifico per gli alunni con questi bisogni: non avevo mai redatto un programma. Impari andando a tentoni».

Imparare a insegnare

Se prendiamo come esempio gli insegnamenti delle materie umanistiche (cioè italiano, latino, storia e geografia), chi insegna ha il più delle volte una laurea magistrale in Lettere o in Storia. Durante il percorso di studi di Lettere molti esami sono a scelta, pochi quelli obbligatori. Dipende dalle Università, ma molto spesso gli insegnamenti di didattica o pedagogia non rientrano tra gli esami obbligatori oppure i crediti formativi da raggiungere non sono comunque sufficienti a restituire una formazione a 360 gradi, così come non è obbligatorio il tirocinio a scuola. Finisce così che spesso chi sale in cattedra non sa insegnare. E se è pur vero che l’insegnamento è prima di tutto una vocazione, è anche vero che nella scuola ci sono molte questioni burocratiche da sbrigare che i docenti si trovano a imparare sul campo, facendo, all’inizio, degli errori.

Il liceo scientifico statale Amedeo Avogadro dove è stata organizzata la seconda prova per il concorso per insegnanti a Roma , 13 febbraio 2013. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Manca decisamente la formazione pratica, il saper compilare un registro di classe, saper elaborare programmi per gli alunni con bisogni educativi speciali, il saper organizzare un consiglio di classe visto che spesso i supplenti si trovano a sostituire coordinatori, saper giostrarsi tra colloqui e ricevimenti», dicono all’unisono i docenti intervistati. In sostanza: conoscere le regole della scuola, ma anche saper gestire una classe. Come si potrebbe risolvere il problema? «Creare percorsi ad hoc per gli aspiranti insegnanti in base alla classe in cui si vuole accedere, rendere il tirocinio obbligatorio e anche alcuni esami obbligatori come quelli di pedagogia e didattica, più di quelli che si fanno normalmente», dice la professoressa Manfredini. «Ci dovrebbero essere dei corsi universitari specifici e a numero chiuso per gli aspiranti professori. Lo Stato deve calcolare di quanti docenti ha bisogno e in base al fabbisogno far partire i corsi. Ci dovrebbero essere delle lezioni anche sulla parte burocratica, sui consigli di classe, sulle leggi che regolano il mondo della scuola», aggiunge Polisca.

Gli abilitati sono più preparati?

Finora abbiamo parlato di neolaureati che salgono in cattedra, i docenti senza abilitazione che sono entrati nelle scuole con le Mad, alcuni continuano a rimanerci grazie all’iscrizione in terza fascia nel 2017. L’ultimo percorso abilitante è stato il Tfa (tirocinio formativo attivo). Si trattava di un corso universitario annuale che prevedeva sia lezioni teoriche che ore di laboratorio e tirocinio. Ce ne furono soltanto due cicli (2011-2012 e 2014-2015), il primo fu bandito nel 2011 dall’allora ministra dell’istruzione Mariastella Gelmini. Poi il governo Gentiloni lo sostituì con il Fit che però è stato abolito sul nascere, come abbiamo visto.

Negli ultimi giorni ha fatto discutere la convocazione dei docenti non abilitati nelle scuole e il fatto che, benché accedere a una cattedra a tempo indeterminato sia diventato quasi impossibile, è molto più semplice diventare “supplenti a tempo pieno”. Tanto che la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia proprio per l’abuso dei contratti a tempo determinato nel mondo della scuola. E non è la prima volta: nel 2013 la Commissione aveva sempre aperto una procedura d’infrazione contro il nostro Paese per l’utilizzo eccessivo di supplenti con contratti a termine «continuativi». Ma davvero chi è abilitato è più preparato dei neolaureati?

Le risposte sono discordanti. C’è chi pensa infatti che comunque il Tfa (l’ultimo percorso abilitante attivato) fosse troppo teorico, altri invece sono convinti che le 475 ore di tirocinio previste, abbinate a laboratori pratici, garantissero una maggiore preparazione per entrare nel mondo della scuola. Quello che è certo è che venire catapultati in un istante dall’altro lato della cattedra è un po’ come imparare a nuotare venendo buttati da una barca senza braccioli. Per i giovani, certo, rappresenta comunque un’opportunità, e quello che forse viene sottratto agli studenti nei primi mesi in termine di tentennamenti e formazione degli insegnanti sul campo, viene restituito loro in entusiasmo tipico dei neolaureati.

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