La Tunisia va al voto per le presidenziali. Perché dovremmo occuparcene
Sette milioni di tunisini sono chiamati oggi alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali anticipate, secondo appuntamento democratico per la carica più alta dello Stato dalla fine del regime di Zine El-Abidine Ben Ali nel 2011. Con buone probabilità, un secondo turno si terrà entro e non oltre il 3 novembre.
Un voto considerato test cruciale per l’acerbo sistema democratico, l’unico nato sulla scia della Primavera araba, e che deve fare i conti con una profonda crisi economica e una forte disoccupazione. Recentemente, gli Stati Uniti hanno annunciato nuovi finanziamenti al Paese a sostegno della transizione democratica.
La morte a 92 anni del presidente Beji Caid Essebsi lo scorso luglio- il primo eletto democraticamente nel 2014 con voto a suffragio universale diretto per traghettare la Tunisia nella delicata fase di transizione – è all’origine del voto anticipato, inizialmente previsto per novembre. Le elezioni legislative sono invece programmate per ottobre. Una variazione di calendario che, sottolineano gli esperti, potrebbe rafforzare la prerogative del capo dello Stato e modificare gli equilibri istituzionali.
Alle legislative di ottobre – che dovrebbero svolgersi prima del secondo turno delle presidenziali – gli elettori potrebbero decidere o di rafforzare i due potenziali capi di Stato votando per i loro partiti, consolidando la loro posizione anche in Parlamento, o inversamente affidarlo all’opposizione, facendo dell’Assemblea nazionale un contraltare alla presidenza.
La scomparsa di Essebsi ha anche modificato il panorama politico nazionale, causando il moltiplicarsi dei partiti laici di fronte all’avversario comune, la potente formazione islamista Ennahda. A distanza di 5 anni, il nodo del voto non è tanto il posto dell’Islam nella politica quanto le attese soluzioni ad annose problematiche socio-economiche, in un contesto ancora molto influenzato dai potenti rapporti di clientelismo.
Le sfide del nuovo Presidente non sono poche: dalla fine del longevo regime di Ben Ali, i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati, la disoccupazione (al 15,5%) non ha accennato a diminuire, il debito è schizzato al 71% del Pil e le diseguaglianze sociali e regionali sono cresciute. Iniziano a farsi sentire anche i problemi di sicurezza (lo scorso giugno la capitale è stata colpita da due attentati rivendicati dallo Stato Islamico), che mettono in luce la fragilità delle istituzioni.
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