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Morcone: «Accordo con l’Ue sui migranti? Sì solo se accettano di ripartire tutte le responsabilità fin dall’inizio» – L’intervista

18 Settembre 2019 - 06:05 Sara Menafra
Parla Mario Morcone, il prefetto che nel 2015 era a capo del Dipartimento immigrazione. E gestì la crisi più grave

Arriva Emmanuel Macron a Roma: la prima visita istituzionale importante per l’Italia del Governo Conte II, certamente. Ma anche l’appuntamento che segna il via alla trattativa europea su cui l’Italia ora punta di più: un nuovo accordo permanente in tema di migrazioni. Cosa si può ottenere davvero dall’Europa perché gestisca assieme all’Italia gli arrivi dal Mediterraneo? Open lo ha chiesto a Mario Morcone, ex prefetto e direttore del Consiglio italiano rifugiati.

Morcone era a capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione nel 2015, all’epoca della grande crisi degli arrivi, quando per la prima volta l’Italia (il ministro era Angelino Alfano) provò ad intendersi con il resto dell’Europa, creando un meccanismo unitario quello che allora si chiamava “relocation” e che negli anni successivi il nostro paese ha sempre percepito come un gigantesco fallimento, criticato tanto da destra e in particolare dalla Lega – da quell’accordo impossibile è partita la critica all’Europa su questo tema – quanto da sinistra.

Prefetto Morcone, oggi c’è un primo incontro con Macron, la settimana prossima un vertice a Malta sull’immigrazione. Come dovrebbe funzionare questa intesa?

Il salto di qualità nei rapporti con l’Europa sui temi dell’immigrazione sarebbe dato da un accordo che redistribuisca equamente i migranti in arrivo, sulla base di un accordo internazionale. Perché funzioni davvero, le persone che arrivano devono essere distribuite subito, per valutare se hanno o meno il diritto all’asilo nei paesi che parteciperanno all’intesa. Solo una volta arrivati nel paese che esamina la loro richiesta di asilo partiranno gli accertamenti e, eventualmente, le decisioni a proposito di accoglienza o rimpatrio. Se rimane ferma la regola che nel paese di primo ingresso si fa la valutazione, per poi distribuire solo i richiedenti asilo che rispondono ad alcuni criteri, non si fa un passo oltre la cosiddetta agenda Junker del 2015.

Come funzionava l’agenda Junker?

Avevamo un numero massimo di persone da portare nei paesi europei che avevano aderito, erano la maggior parte dei membri dell’Unione, tranne Gran Bretagna, Irlanda e qualcun altro. L’accordo nacque nel 2015 in seguito a discorsi simili a quelli di oggi, sommati ad arrivi più numerosi tanto in Italia quanto in Grecia. Allora io ero il capo del dipartimento libertà civili e immigrazione e mi occupai dell’accordo per quanto di mia competenza. In estrema sintesi: l’Italia ottenne il diritto a redistribuire 40mila persone, la Grecia 70mila e l’Ungheria altre 40mila anche se respinse subito l’intesa che obbligava chi aderiva a sottoporre i migranti a un procedimento di valutazione che al contempo tutelava i loro diritti.

Quanti migranti arrivati in Italia ottennero di essere ricollocati?

Alla fine ci fermammo a quota 12.500.

Perché non si riusciva a fare di più?

I problemi erano sostanzialmente due. Uno era il numero limitato di nazionalità di provenienza che potevano accedere alla redistribuzione. Fu fissato il criterio che l’intesa riguardava persone con nazionalità che nel 75% dei paesi aderenti ottengono quasi certamente lo status di rifugiato. Non erano molti: eritrei, siriani e iracheni.

La valutazione di chi fa domanda di asilo va per nazionalità?

In teoria sarebbe sulla singola storia di vita, e tuttavia allora si usò questo criterio per paesi. Paesi che normalmente ottenevano asilo e protezione internazionale. Noi Italia potevamo dunque spostare solo gli eritrei, i siriani erano andati quasi tutti in Germania, c’era qualche siriano e qualche nazionalità residuale ma non si andava molto oltre. Allo stesso tempo all’epoca arrivavano soprattutto nigeriani, tunisini, gambiani, senegalesi, in particolare dall’Africa occidentale.

L’altro problema a cui accennava?

La valutazione della possibilità di accedere al riconoscimento del diritto di asilo era fatta nel paese di primo ingresso, in Italia o Grecia. Chi otteneva il sì partiva, gli altri restavano da noi, molti con un foglio di via mai attuato e quindi con difficoltà ad essere regolarizzati, alcuni oggetto di un faticoso percorso di rimpatrio, altri accolti ma anche lì con percorsi che non possono che essere onerosi.

Oggi si deve segnare la differenza, le persone vanno redistribuite subito e nel paese di destinazione e li si farà valutazione.

Non è detto che avvenga, già ora la Francia, ad esempio, quando si offre di accogliere gli sbarcati delle navi umanitarie lo fa solo dopo aver mandato un proprio funzionario che valuta chi accogliere e chi no.

In ogni caso finora ci sono stati solo accordi informali. Il 23 a Malta, l’Italia punta ad avere un vero e proprio documento, un nuovo metodo. Capisco che alcuni siano preoccupati dalla non raggiunta autonomia. Ma io dico: facciamolo con chi ci sta. Germania, Francia, Spagna e Belgio da quel che vedo.

La Francia sembra appunto già mettere dei paletti.

Se la valutazione di chi possa essere accolto e chi no avviene in Italia, torniamo al 2015 bisogna essere chiari.

Potremmo trovarci in una situazione analoga a quella del 2015?

L’Europa deve fare una riflessione più seria, che va oltre l’asilo e oltre gli sbarchi: è indispensabile aprire anche per numeri limitati gli ingressi regolari. E’ indispensabile aprire canali regolari di ingresso, anche per numeri limitati, concordandoli con i principali paesi di provenienza: Senegal, Tunisia, Nord Africa. Al momento ricordiamo che non è possibile arrivare regolarmente in Italia, neppure se qualcuno ti offre regolarmente un lavoro. E’ questo che alimenta il meccanismo illegale e impedisce di rimpatriare gli irregolari. Un numero ragionevole di arrivi lo possiamo tranquillamente accettare. Abbiamo fatto decreti flussi per 100mila persone l’anno e li abbiamo fatti perché l’industria li chiedeva.

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