Le temperature sono in aumento, ma non tutti sembrano accorgersene: la verità è nei dati scientifici
Non è solo una questione di statistiche. Sono tanti gli addetti ai lavori che testimoniano in tutto il mondo il cambiamento climatico: la rivista Nature racconta diverse loro storie, come quella di Katie Martyr orticoltrice al giardino botanico dell’Università di Cambridge. Quotidianamente effettua misurazioni di temperatura. Nel luglio scorso la massima registrata in Gran Bretagna ha toccato i 38,7°C.
Chi lavora alle stazioni meteorologiche generalmente si trova a confrontare quotidianamente dei termometri che registrano la temperatura massima e minima della giornata precedente. Alcuni sono veri e propri termometri al mercurio, di quelli “all’antica”. Gli apparecchi sono montati in contenitori bianchi denominati schermi di Stevenson, ovvero le “capannine meteorologiche”.
Le temperature dal 1880 a oggi
Se andiamo a vedere come la temperatura media globale è aumentata dal 1880 a oggi riscontriamo un tasso medio di 0,07°C in più per decennio fino al 1970. Dagli anni ’70 in poi si è passati a 0,17°C in più per decennio.
La temperatura media globale più alta del 2019 è stata misurata in circa novemila stazioni meteorologiche sparse nel mondo, registrando un incremento molto più rapido rispetto alle medie annuali degli ultimi trent’anni.
Il luglio 2019 è stato il 43° consecutivo con temperature superiori alla media del XX Secolo. Parliamo del mese che secondo i climatologi è già di per sé il più caldo dell’anno, quindi al momento risulta il periodo con le temperature più alte registrate sul pianeta.
Secondo i dati della Wmo (Organizzazione meteorologica mondiale), la più alta temperatura registrata ufficialmente risale al luglio 1913: 56,7°C nella Death Valley. Nel luglio 2016 l’Organizzazione registrò più di 53°C nel Kuwait e la stessa temperatura in Pakistan nel 2017.
Tutto questo potrebbe non interessarci particolarmente, visto che parliamo di aree desertiche calde per antonomasia. Spostandoci nell’Antartide invece abbiamo dati più emblematici della situazione. Basti pensare che nel marzo 2015, in una stazione ceca presso la penisola antartica, vennero registrati 17,9°C.
Una crisi invisibile
Tutti noi sperimentiamo però empiricamente il clima, ovvero secondo le nostre esperienze individuali. Vediamo che d’inverno fa freddo e ci chiediamo se per caso questi climatologi non ce la stiano raccontando giusta.
Così abbiamo da un lato la certezza di trovarci in una situazione d’emergenza, anche sanitaria, riconosciuta ormai da diversi paesi, dall’altra non sembra ci sia una spinta sufficiente a “mobilitare” le persone verso un cambiamento. Su questa sorta di paradosso ha riflettuto recentemente su Nature anche Paul Gilding, direttore esecutivo di Greenpeace dal 1989 and 1994.
L’ambientalista australiano nota come durante la Seconda guerra mondiale il popolo inglese riuscì a reagire in maniera compatta e piuttosto rapida al pericolo, percepito da tutti in maniera inconfutabile durante i bombardamenti. Oggi la crisi non è percepita da tutti allo stesso modo. Si tende a cercare dei colpevoli che a loro volta si chiudono nello sminuire o negare del tutto il fenomeno.
Ma il problema sarà di difficile risoluzione senza una visione condivisa e costruttiva.
«Pensate come, durante la Seconda guerra mondiale, i genitori nelle città del Regno Unito mandarono milioni di loro figli in campagna – racconta Gilding – e sconosciuti completi li portarono nelle loro case. Alle donne fu permesso di guidare gli autobus per la prima volta e i parchi divennero fattorie».
Eppure questo genere di reazioni di fronte alle crisi è stato riconosciuto e studiato. Fa parte delle nostre capacità, e il recente impegno e interesse dimostrato proprio dai giovani che erediteranno la gestione dei nostri errori, sembra accendere un ultimo barlume di speranza in Gilding. Staremo a vedere.
Foto di copertina: Vincenzo Monaco/Temperature anomale nel Mondo.
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