Antonio Guterres, alla vigilia del summit Onu sul clima: «Madre Natura è arrabbiata»
Mancano pochi giorni al summit dell’Onu sul clima che si terrà a New York e quindi si presenta un’occasione per riflettere sui meriti e i fallimenti dei precedenti summit, a partire da quello storico di Parigi nel 2016. Se gli impegni presi tre anni fa non hanno ancora portato a una riduzione nelle emissioni di gas serra, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, incalzato dai giornalisti Mark Hertsgaard del The Nation e Mark Phillips di CBS News, dice di essere ottimista anche se, avverte, «Madre Natura è arrabbiata». Quì viene riportata una parte dell’intervista realizzata a nome delle testate che partecipano al progetto Covering climate now, tra le quali Open.
Antonio Guterres, cosa possono fare le persone comuni per costringere i loro governi a fare di più per affrontare questa emergenza?
«Il pubblico può mobilitarsi. I giovani hanno mostrato grande capacità di leadership in tal senso. Ma la società civile, le imprese, le città, le regioni sempre più frequentemente premono sui governi centrali affinché adottino nuove misure di contrasto al cambiamento climatico – lo abbiamo visto alle ultime elezioni europee – e sempre più frequentemente assumono loro stessi la responsabilità di cambiare. Città e imprese riducono le emissioni, le banche tengono sempre più conto dei fattori ambientali nelle loro operazioni finanziarie. Insomma, l’intera società è sempre più coinvolta perché sa che stiamo perdendo la gara».
È per questo che dice che siamo in un’emergenza climatica?
«Si, guardi per esempio la moltiplicazione dei disastri naturali. Sono sempre più intensi con conseguenze sempre più devastanti. Sono appena tornato dalle Bahamas: ciò che ho visto era terribile, distruzione totale. La siccità in Africa non è un problema soltanto per la popolazione – costretta a emigrare – ma alimenta anche il terrorismo e la violenza. Lo Zaire è un buon esempio di questo. Vediamo i ghiacciai fondersi, vediamo sbiancare i coralli, le catene alimentari sono sempre più a rischio, vediamo aumentare le temperature terrestri – luglio è stato il mese più caldo nella storia – l’innalzamento dei livelli del mare, l’aumento nei livelli di CO2 nell’atmosfera […] Insomma abbiamo a che fare con una vera e propria minaccia, non soltanto per il futuro del nostro pianeta, ma per il suo presente»
Bernie Sanders [Senatore del Vermont e uno dei candidati democratici alle elezioni Usa ndr] vorrebbe far spendere agli Stati Uniti 200 miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo [e per effettuare una transizione a un’economia più verde]. Le sembra una cifra sufficiente?
«L’accordo di Parigi parla chiaro. I paesi sviluppati si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari da destinare ai paesi in via di sviluppo per far fronte al cambiamento climatico. Ovviamente è essenziale che tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti, facciano la loro parte [….] Credo sia sempre più necessario spiegare ai cittadini che anche se costa molto cambiare, fare nulla ci costerebbe di ancora di più»
Sono passati circa tre anni dagli Accordi di Parigi, ma le misure adottate non stanno dando per il momento i frutti sperati. Si sente disperato?
«No, non sono disperato. Sono ottimista. Perchè vedo molto dinamismo nella società civile che mette sempre più pressione ai Governi affinché facciano qualcosa. Se guarda gli ultimi sondaggi negli Stati Uniti, vedrà che la maggioranza dei cittadini americani adesso considera il cambiamento climatico un’emergenza. Questo è il motivo per cui sono ottimista: perché i governi seguono sempre l’opinione pubblica prima o poi. Quindi dobbiamo continuare ad andare avanti, continuare a dire la verità al pubblico e mostrare fiducia nelle istituzioni democratiche che prima o poi dovranno tenere conto delle esigenze e dei desideri dei cittadini»
Quanto sarebbe più facile il suo lavoro se la posizione degli Stati Uniti rispetto al cambiamento climatico fosse diversa da come è attualmente?
«È chiaro che se ci fosse un forte impegno da parte degli Stati Uniti per contrastare il cambiamento climatico, se diversi paesi in Asia non vendessero carbon fossile, insomma se tutti stessero già implementando ciò che l’Intergovernmental Panel on Climate Change [IPCC, un ente consultivo dell’Onu ndr] ha prescritto, ovvero di ridurre le emissioni di gas serra del 45% entro il 2030, certo, sarebbe molto meglio. Visto che attualmente non è così, il nostro ruolo è spingere gli stati a farlo».
Lei crede ancora di poter convincere l’amministrazione di Donald Trump a cambiare il proprio approccio riguardo al cambiamento climatico?
«La speranza è sempre l’ultima a morire. Credo che ci sia molto lavoro da fare con la società civile, con le imprese, con gli stati federali, con le città e questo lavoro sta già dando dei frutti»
L’inazione degli Stati Uniti viene usata come pretesto dagli altri paesi per far meno rispetto al cambiamento climatico?
«No, non credo sia più un problema ormai. Il summit a Katowice [in Polonia ndr] è stato un momento molto difficile, ma alla fine siamo riusciti a convincere tutti, compresi gli Stati Uniti. La mia impressione è che ci sia una presa di coscienza collettiva e sempre più paesi sanno che non possono aspettare che siano prima gli altri ad agire, perché si tratta di un problema globale».
Ritiene che il summit di Parigi sia stato un fallimento?
«No perché sempre più Paesi adesso stanno agendo per ridurre le emissioni. Nell’Unione europea soltanto tre paesi si sono opposti all’obiettivo della Commissione di essere “carbon neutral” entro il 2050 e credo che col passare del tempo anche loro si allineeranno. La crescita nell’utilizzo di energia solare in paesi come l’India e la Cina è stupefacente, lo stesso vale per piccolissimi paesi in via di sviluppo, anche loro si stanno impegnando. Sento soffiare il vento del cambiamento e credo che presto le emissioni diminuiranno».
Non crede che sia il caso di accettare che probabilmente questi obiettivi non verranno mai raggiunti e concentrare i nostri sforzi sull’adattamento?
«Bisogna fare entrambe le cose, supportando i Paesi più vulnerabili. Ma la scienza oggi ci dice che questi obiettivi sono ancora realizzabili. Ovviamente questo richiede dei cambiamenti strutturali nel modo in cui produciamo da mangiare, come potenziamo le nostre economie, come organizziamo le nostre città e nel modo in cui produciamo energia. Credo che sempre più persone, imprese, città e governi lo stiano realizzando».
Questa intervista è stata realizzata in esclusiva per tutte le testate del progetto a cui ha aderito Open.online Covering Climate Now, una collaborazione globale di più di 250 media con lo scopo di rafforzare l’informazione sul cambiamento climatico.
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