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Rider, i ciclofattorini italiani raccontano il caporalato digitale

21 Settembre 2019 - 07:11 Giada Ferraglioni
Come funziona la compravendita di account nel ciclofattorinaggio? E chi risponderà in difesa di questi nuovi «braccianti metropolitani»?

Mancato rispetto delle tutele contrattuali, inosservanza della sicurezza sulle
strade e nel lavoro, occupazione di lavoratori stranieri irregolari, carenti norme igienico-sanitarie nei contenitori che trasportano il cibo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Alla fine, la procura di Milano ha aperto un’indagine contro le maggiori piattaforme di food delivery.

Ancora senza indagati né ipotesi di reato, l’inchiesta punta a far luce sia sulla sicurezza stradale dei rider, sia sulle dinamiche di caporalato digitale. L’indagine è iniziata a luglio, a seguito di alcuni controlli a campione condotti dalla polizia locale di Milano. Dei 30 lavoratori identificati, 3 sono risultati non in regola.

Proprio come il caporalato agricolo, quello digitale funziona per intermediari. Alcuni cittadini in regola con i documenti rivendono o affidano i propri account a lavoratori senza permesso di soggiorno. I caporali concordano con i lavoratori fantasma una cifra al mese, che si aggira intorno ai 300 euro al mese, che riscuotono direttamente dal lavoro altrui. I nuovi schiavi sono serviti.

La testimonianza

«Trenta rider? Ma saranno centinaia!», dice a Open Nicola (nome di fantasia). «Le autorità hanno scoperto l’acqua calda». Nicola è un ciclofattorino di Milano, lavora per una delle quattro multinazionali di food delivery che hanno investito nel territorio italiano – Ubereats, Golovo, Deliveroo e Just Eat. «Sono anni che segnalo e cerco di combattere questa cosa»

«Milano è la regina di queste dinamiche», spiega. «Basta andare in stazione Centrale e in via Ventiquattro Maggio, che sono i punti nevralgici del reclutamento».

Riders per consegna cibo a domicilio, Milano, 19 settembre 2019. ANSA/CARLO COZZOLI

La spiegazione di Nicola sulle tappe dell’arruolamento è chiara: «Funziona così: io, cittadino in regola, posso aprire fino a quattro account, uno per ogni azienda. Si fa tutto online: mandi i documenti e la compagnia ti seleziona senza nemmeno farti il colloquio, che sia di persona o telefonico. Senza sapere chi sono, se hanno necessità mi assumono e mi mi mandano la borsa».

«A quel punto basta che vado in stazione e do il mio account a persone senza permesso (e che quindi non potrebbero essere essere assunti). Concordo con loro un tot al mese, che loro mi danno senza che io abbia mai lavorato. Magari un account su 4 me lo tengo e lavoro sul serio, ma sugli altri tre tiro su 900 euro senza problemi».

Il sistema di compravendita è talmente ben organizzato che la Stazione Centrale e via Ventiquattro Maggio sono punti di ritrovo anche dell’hinterland. «Noi guadagniamo in media 10 euro lordi», spiega ancora Nicola. «Chi prende in affido l’account ne guadagna 3 netti, perché 7 li deve dare al proprietario».

Secondo Nicola, le compagnie sanno bene come funziona il sottobosco dei lavoratori fantasma e tutta la dinamica della compravendita. «Le aziende non sanno chi ha il cellulare in mano. A dirla tutta, questa cosa gli fa comodo. Molti extracomunitari, pur di lavorare, accettano qualsiasi compromesso e loro ci giocano per abbassare le tariffe ed essere più competitivi. Io ho segnalato la cosa tantissime volte, anche ai vigili, ma nessuno ti ferma quando stai lavorando con uno zaino in spalla».

Deliverance: «I primi caporali sono le aziende»

Deliverance, un collettivo autonomo di rider attivo sul territorio milanese, è stato tra i primi a denunciare le dinamiche di caporalato digitale nel mondo del ciclofattorinaggio attraverso la “Lettera pubblica contro il caporalato digitale”. Ma i «braccianti metropolitani», come nel caso dell agricoltura, non sono il cuore del problema: «I primi caporali sono le aziende», ha detto Angelo di Deliverance a Open.

In un post pubblicato su Facebook a seguito della notizia dell’apertura dell’indagine, intitolato “No alla caccia alle streghe”, il collettivo mette il focus non tanto sui lavoratori sfruttati, ma sull’assenza di diritti sociali e sindacali per la categoria.

«Vittime di questa filiera sono gli #invisibili delle aree metropolitane- scrivono – che finiscono per essere impiegati da qualche caporale pur di avere accesso ad un lavoro che sia in grado di dar loro la speranza di raccogliere qualche briciola da un’economia dei servizi digitali che si sta arricchendo sempre di più, giorno dopo giorno, sulle spalle dei lavoratori stessi».

Per arginare il fenomeno e restituire dignità ai lavoratori c’è bisogno di andare avanti con la legge, rivedere il testo della proposta e intervenendo laddove è carente – soprattutto in materia di lavoro in nero. «Solo ed esclusivamente assicurando tali diritti a tutte e tutti, regolamentando un’organizzazione di un lavoro, in cui ormai non è più possibile aspettare di trovare una soluzione», scrivono ancora da Deliverance.

«Le #piattaforme e le istituzioni devono farsi carico del fenomeno. Chiediamo che si ritocchi la norma che riguarda il permesso di soggiorno e contratti di lavoro, in maniera tale che anche un lavoratore autonomo o #ultraprecario, come un fattorino, possa richiedere con più agio la documentazione per vivere nel nostro Paese da regolare, senza finire nel gorgo del lavoro nero».

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