L’era del Normcore: quando la moda è passata dall’essere esclusiva all’essere reale
Era il 2014 quando uno dei più importanti team di previsioni di tendenze, il K-hole, portava all’attenzione il termine “Normcore” – nato dalla crasi “normal” e “hard-core”. Individuato nell’ambito di un più ampio studio sociologico (Youth Mode), lo definivano come «il non cercare per forza di fare la differenza, indossando abiti ardentemente ordinari».
Nello stesso anno, la giornalista del New York Times Fiona Duncan scriveva un articolo intitolato: Normcore: la moda per quelli che hanno capito di essere uno su 7 miliardi. E così, quella che fino a poco tempo prima veniva intesa come una tendenza “anonima”, diventava il cuore dell’espressione estetica.
Da qualche anno a questa parte, il mondo della moda sembra aver abbandonato il culto dell’originalità a favore di una nuova inclinazione per l’ordinario. Complice sia la diffusione di soluzioni low cost, sia la quotidianità indiscussa di capi come jeans e t-shirt, sia l’umanizzazione delle star sui social network, l’industria del fashion si è trovata a fare i conti con questo spirito del «trovare liberatorio il non essere in nessun modo speciali».
Questo nuovo approccio all’estetica ha aperto le porte a testimonial e spot pubblicitari di tutt’altro respiro rispetto ai classici modelli irraggiungibili. “Normcore” è diventata una parola chiave, quasi imprescindibile, per poter comunicare alle consumatrici e ai consumatori la validità del proprio prodotto.
Il “normale spinto” è ormai il pane quotidiano del fashion business: dallo spot di Dove, che ha scelto di usare donne comuni e non modelle, fino all’ultima campagna di Intimissimi con Sara Jessica Parker, in cui vengono proposti numerosi stili di reggiseni per rispecchiare la “verità” di ognuna, passando per i sorrisi disinvolti e imperfetti della linea di rossetti di Gucci.
Nella pubblicità di Intimissimi, l’attrice incoraggia le donne a scegliere un intimo che rispecchi la verità del proprio corpo e del proprio carattere: una postura contraria a quella classica, dove il modello (e la modella) si imponeva come standard da raggiungere.
Dallo standard al reale
I lati positivi del “Normcore” sono diversi. Il più importante è certo quello dell’inclusività: da un certo punto in poi, non si trattava più solo di includere bellezze stravaganti o fuori dall’ordinario, ma di creare soluzioni che parlassero direttamente al reale.
Il beautyfing a ogni costo sembra ormai essere acqua passata. Il «sempre crescente antifashion sentiment», come lo ha definito lo stilista Jeremy Lewes, si è imposto sulla dittatura dello standard estetico, lasciando spazio alla realtà nella sua forma più consueta.
Un processo talmente ben riuscito e radicato che, secondo l’Urban Dictionary la parola “Normcore” è diventata sinonimo di “cool”. L’immediatezza del corpo senza filtri è una prospettiva da cui le case di moda non possono – e forse non vogliono – più sottrarsi. La distruzione dei canoni della moda è, ormai, la moda stessa.
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Foto copertina: campagna Gap