Fine vita, i vescovi protestano dopo la sentenza: «Si creano i presupposti per una cultura della morte»
«Non comprendo come si possa parlare di libertà, qui si creano i presupposti per una cultura della morte in cui la società perde il lume della ragione». Lo ha detto il segretario generale della Cei, mons. Stefano Russo, a margine di una conferenza stampa commentando la decisione della Consulta sul suicidio assistito.
«Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle», ha aggiunto. «È chiaro che chiediamo per i medici l’obiezione di coscienza». Russo sottolinea però che la decisione della Corte non ha creato «una frattura» tra la Conferenza Episcopale italiana e le istituzioni laiche. «Noi siamo sempre aperti al dialogo», ha aggiunto, «ma speriamo in paletti forti. Non ci può stare bene quanto deciso ieri ed è anomalo che una sentenza così forte sia arrivata prima di un passaggio parlamentare».
In una nota, la Cei ha ribadito la necessità di garantire «l’obiezione di coscienza rispetto a chi chiedesse di essere aiutato a morire» e di sostenere «il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita».
L’arcivescovo teologo Bruno Forte e il mons. Domenico Pompili, sottosegretario del Cei fino al 2015, si sono definiti sconcertati: «Certo che siamo sconcertati. È una pagina grave. È grave che il Parlamento non si sia pronunciato per un anno e che la Corte abbia dovuto deliberare su questioni etiche. Sono sconcertato anche se non sorpreso, perché è chiaro da tempo che si pensa di eliminare la sofferenza accelerando la fine del sofferente».
Ma no anche all’accanimento terapeutico
Nel comunicato diffuso al termine del Consiglio Episcoplìale Permanente, però, i vescovi «riaffermano il rifiuto dell’accanimento terapeutico, riconoscendo che l’intervento medico non può prescindere da una valutazione delle ragionevoli speranze di guarigione e della giusta proporzionalità delle cure».
«Alla Chiesa sta a cuore la dignità della persona, per cui i Pastori – prosegue la nota – non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Tale prossimità, mentre contrasta la solitudine e l’abbandono, promuove una sensibilizzazione sul valore della vita come dono e responsabilità; cura l’educazione e la formazione di quanti operano in strutture sanitarie di ispirazione cristiana».
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