Silvia Romano, gli inquirenti italiani sulla presunta “islamizzazione”: ancora nessun riscontro
Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya il 20 novembre 2018, è viva, ma sarebbe stata costretta dai rapitori «all’islamizzazione e al matrimonio islamico». A riferirlo è Il Giornale, che cita fonti dei servizi segreti italiani, relative al caso della volontaria rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e di cui si sono perse le tracce.
Secondo quanto riferito dal quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, che riporta fonti dell’intelligence italiana, gli uomini che stanno tenendo in ostaggio la cooperante italiana starebbero altresì operando nei suoi confronti «una sorta di lavaggio del cervello, una manovra di pressione psicologica» che punterebbe «a recidere i legami affettivi e culturali con la sua patria d’origine».
Le informazioni più recenti parlerebbero anche di un «matrimonio forzato con un uomo legato all’organizzazione che la tiene in ostaggio». Forse un modo per tenerla nascosta, o forse ancora un modo per inflazionare il prezzo del riscatto che il governo italiano sarebbe disposto a pagare per la sua liberazione.
Tuttavia, come evidenzia Il Giornale, il fatto che «le notizie sul matrimonio imposto alla ragazza siano arrivate sino ai nostri 007 significa che una sorta di canale si è riusciti ad attivarlo».
«Nessun riscontro»
Fonti giudiziarie a Roma hanno però chiarito che non ci sarebbe nessuna evidenza investigativa sulla presunta islamizzazone di Silvia Romano. Per gli inquirenti che indagano per sequestro di persona con finalità di terrorismo, le uniche “certezze” sono che la ragazza potrebbe essere stata trasferita in Somalia dopo il sequestro. In base a quanto accertato dagli inquirenti, prima e dopo il blitz avvenuto in un centro commerciale a Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, ci sono stati contatti telefonici tra gli autori materiali del rapimento e la Somalia.
Altro elemento acquisito è che si è trattato di un sequestro su commissione e che i mezzi (armi e moto) di cui erano dotati i rapitori (un gruppo composto da otto persone) sono giudicati, a detta di chi sta svolgendo le indagini, “sproporzionati” rispetto al livello medio delle bande criminali keniote.
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