Interviste emergenti: Young Kali, vivere e cantare “borderline” – Roma
Del vecchio Young Kali è rimasta solo qualche pillola nel video dell’ultimo singolo, Borderline. Anche se vecchio non è un aggettivo pertinente per un 24enne che sta ancora scoprendo se stesso, come persona e come artista: «Ma ho chiuso con la trap, ero un insulto per i veri trapper americani».
L’ultimo pezzo di Young Kali è l’annuncio artistico di una nuova creatività, di una maturità personale e canora raggiunta anche grazie alla firma del contratto con la Sugar. Quelle pillole, sparse nei brani della passata veste da trapper, come droghe, sciroppi e Xanax, adesso sono problemi raccontati con più consapevolezza.
«Borderline è semplice e sincero. È un brano che riesce a sdrammatizzare un tema pesante come la dipendenza, paragonandola a una storia d’amore. Borderline, in poche parole, è la mia rappresentazione di un rapporto malato, semplice e diretto, tra un uomo e una sua qualsiasi dipendenza. Nel mio caso, il mio non riuscire a gestire le emozioni, mi ha portato ad avere rapporti malsani in amore, con le droghe e con i farmaci».
Ascoltando i tuoi pezzi, sembra che il primo approccio alla musica è stato quasi violento.
«Ho iniziato a 20 anni: facevo arti marziali con un rapper di Roma, si chiama Basilare. Mi sono appassionato a quello che cantava, e ho provato anch’io a scrivere i primi versi, le prime rime. Poi, sempre per caso, ho conosciuto un secondo rapper romano, Og Eastbull. Era il mio vicino di casa. Di lì in poi non ci siamo mai più separati e mi ha accolto nella sua crew, la Bpr Squad».
Sei giovanissimo, non hai mai pensato di proseguire gli studi?
«Ho provato a iscrivermi all’università, ma non era roba per me. La musica mi ha dato una strada da seguire: quando ho firmato il contratto con la Sugar ho capito che, forse, avrei potuto vivere di questo, di musica».
Tornando alla musica, cos’è successo dopo il “battesimo” nella crew?
«È stata la porta di ingresso al Sick Studio: vivendo nella crew, ho incontrato il produttore Sick Luke. Abbiamo fatto parecchie cose insieme. È arrivato il momento, però, in cui ho sentito l’esigenza di stare da solo. Stare in un gruppo non è facile, per giunta noi eravamo quattro matti con quattro idee diverse. Aggiungi il fatto che, a un certo punto, ho scoperto di avere una buona impostazione vocale. E allora ho capito che era giunto il momento di usarla quella voce».
Una trasmigrazione dalla trap verso quale genere?
«Sto sperimentando il genere “new soul”, e in Italia non ne conosco altri. Fare qualcosa di innovativo nella musica è la cosa più difficile: è un mondo saturo, ormai hanno fatto già tutto».
“New soul”. Prova a spiegare a mia nonna di cosa si tratta.
«È un soul che si affaccia sul mondo urban, sul mondo del rap. Siamo sicuri che tua nonna sappia cosa sia il rap? – ride -. Però è un genere che predilige il canto, senza effetti estremi sulla voce, a differenza della trap. Soprattutto suonato con strumenti, è necessario che ci sia un groove di strumenti musicali che diano anima e corpo al pezzo».
È una ricerca di autenticità la tua?
«L’80% della musica che ascolti adesso è elettronica, non ci sono strumenti. Eppure ti parla uno che ha iniziato con la trap. Il mio primo album è trap, si chiame Ade ed è diviso in tre parti: inferno, Purgatorio e Paradiso. È andato bene, a superato il milione di streams. Un bel disco, un bel viaggio. Non è questione di autenticità, ma di gusto».
Portami nell’Inferno: cosa ti piace di più di quel luogo, quel disco?
«Piccolo Principe, Chissà, Zucchero, ci sono particolarmente affezionato: sono dei diamantini grezzi. E già da quei brani si capiva che non avrei trappato ancora per molto. Prima scrivevo con più superficialità. Da quando ho cambiato genere, i pezzi sono diventati più strutturati, più veri e sentiti a livello di scrittura».
Non c’è rancore, però parli della trap con il nodo in gola. Secondo me c’entra l’autenticità.
«Il problema è che in Italia è molto distorta la concezione della trap. Qui non la fa praticamente nessuno: la trap è una filosofia di vita. La fanno gli americani nelle trap house, dove si vende e consuma crack. Parlano di quello perché fanno quello. Si sparano e si ammazzano. In Italia non è così: in Italia confondono la musicalità trap con la trap vera».
Come ti dicevo...
«Sì. Magari il ragazzino che scrive due cazzate, “mi drogo”, “mi faccio le bitch”, automaticamente crede di essere trapper. Si tatua in faccia. Ma è solo una ripercussione di quello che succede in America. Ma in Italia non ha fondamenta, non è vero. Abbiamo tutt’altro tipo di cultura, anche cultura criminale: siamo diversi, la trap italiana è una finzione».
Per questo hai cambiato genere?
«Mi sono allontanato dalla trap perché non era roba mia, non la sapevo fare bene: ero un insulto per i trapper americani. Poi, cantando ho scoperto che nel mio range vocale c’era la possibilità di trasmigrare nel soul».
Tornando ai dischi, tra Ade è Borderline c’è stato altro?
Dopo Ade ho fatto uscire un altro album, Amore digitale. L’ho fatto sparire, purtroppo, dal giro. Un consiglio sbagliato del mio ex manager. Col senno di poi, l’avrei tenuto. Era un periodo travagliato della mia vita. Venne fuori un disco molto pesante, elettronico, strano, ma introspettivo. Era bellino».
E arriviamo a oggi…
«La mia carriera ha preso una svolta con l’uscita dell’ultimo singolo, Borderline. Mi è venuto in mente mentre passeggiavo al parco, a Roma, con il cane. Ho sentito un type beat che mi piaceva molto. E le parole sono uscite così, senza troppe riflessioni. Ho visto che quadravano, me le sono segnate sul cellulare».
Quanta Roma c’è in quello che scrivi e canti?
«Roma mi ha formato, ma più che altro è stato il contesto, la famiglia, le esperienze, a influire sulla mia musica. Comunque, spero di trasferirmi a Milano: a Roma non funziona niente, Milano è molto più easy. Roma è un monumento travestito da monnezza – ride -, da ovunque la guardi, è bellissima. Ma non funziona niente, tutti incazzati, è proprio una giungla. Milano è più un giardino. Certo, ci sono delle safe zone dove amo tornare quando ho bisogno di pace. Sono: casa del mio produttore, Due Ponti e Villa Pamphili, a spasso con il mio cane».
Progetti futuri?
«Dopo Borderline usciranno altre canzoni, sono tranquillo perché ho tanti provini. Bisogna fare il mix e il master, ma livello di canzoni sto tranquillo. Adesso facciamo brillare Borderline, poi scegliamo la seconda bomba da sganciare. L’album intero e il tour ci saranno, ma non prima del 2020».
Punti di riferimento musicali?
«Ascoltare tanta musica diversa aiuta, ti stimola: da Branduardi ai Led Zeppelin. Mi piace molto Calcutta. Poi Franco126, Massimo Pericolo, ma il mio sogno è duettare con Calcutta. La posso anche ritirarmi a vita privata per sempre».
Ultima domanda: perché hai scelto questo nome d’arte?
«Non l’ho scelto io, ma Og Eastbull: è lui che ha battezzato tutti i membri della Bpr Squad. Young sta per giovane. Kali è un antico sistema di combattimento filippino. Un’arte marziale che ho praticato a lungo. Armi, botte: tornavo a casa con i tagli. Mi sono rotto il naso due volte. Perché ho lasciato? Mi so’ stancato di essere menato».
Cerca di non farti male. In bocca al lupo per il Simone!
«Aspetta, fammi fare i ringraziamenti. Voglio ringraziare tutte le persone che mi hanno trattato di merda. Mi hanno dato un bello sprint. Non faccio i nomi, perché sanno benissimo chi sono. Ma grazie, siete la mia benzina».
Fixer: Giulia Delogu
Video: Vincenzo Monaco
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