Io, giornalista di Open, vivo in Italia senza cittadinanza. Ecco perché non è lo stesso
Mi ricordo quella volta che a 16 anni dovevo partire per un gemellaggio in Olanda con i miei compagni di scuola. Tutto pronto, valigia in mano, stavo per salire sull’aereo quando sono stata bloccata all’ingresso. L’hostess mi ha fermata: «Scusi, ma con il permesso di soggiorno non può partire». Tutti si sono girati a guardarmi.
Come se fossi una trafficante di droga, mi hanno portata in uno stanzino con la professoressa che doveva accompagnarci nel viaggio. Erano stati allertati gli agenti della polizia di frontiera e, per farmi partire, la direttrice dell’aeroporto ha dovuto firmare un’autorizzazione. L’ha fatto perché ha avuto buon senso e ha capito la situazione.
Ora, ho 29 anni, e ci farei una risata. Allora mi ricordo la vergogna, la confusione, e nella mente continuavo a ripetere: «Vi prego, fatemi andare con i miei amici».
Mi ricordo anche quando tre anni fa ho fatto il concorso per entrare nella scuola di giornalismo. Sapevo che era troppo costosa, tentai lo stesso il test. Arrivai prima in graduatoria. Decisi allora di provare a chiedere un prestito in banca, uno di quelli ad honorem per gli studenti che si laureano con il massimo dei voti.
Ricordo la persona che visionò la mia pratica, mi guardò e disse: «I requisiti ci sono, ma non hai la cittadinanza, non possiamo concederti un prestito». Mi arrabbiai tantissimo, scrissi al direttore di banca. Il prestito mi fu concesso. Di nuovo grazie al buon senso di una persona.
L’elenco è lungo, include tanti «mi ricordo»: da quella volta che sono stata esclusa dal progetto Erasmus, e ho dovuto lottare contro la burocrazia per poter partire, a quella in cui ho rischiato di perdere il mio primo lavoro perché l’Ordine dei giornalisti si rifiutava di riconoscermi il praticantato.
Per sbloccare la situazione sono intervenuti i direttori della mia scuola e il presidente dell’ordine delle Marche dove sono iscritta. È così la vita degli italiani senza cittadinanza, legata al buon senso delle persone. Speri sempre di incontrare qualcuno che capisca la situazione, che chiuda un occhio, che guardi oltre la burocrazia.
Chi sono
Mi chiamo Olga, sono nata 29 anni fa vicino a Odessa, al confine con Russia e Ucraina. Sono venuta in Italia con mia mamma a 7 anni. Quando è caduta l’Urss, lei ha perso il suo lavoro da insegnante ed è dovuta partire, portandomi con sé.
Oggi alla Camera riprende l’esame della legge sullo ius culturae che dovrebbe semplificare l’iter per l’ottenimento della cittadinanza italiana ai ragazzi come me. E mentre nei palazzi si parla di politica, di quanto approvare una norma simile sia “troppo di sinistra” quindi “impopolare”, di come «la cittadinanza non possa essere regalata», la mia domanda per ottenerla, da quattro anni, è chiusa in qualche cassetto del Viminale.
Sul sito del ministero dell’Interno, da mesi, se cerco il numero della mia pratica compare scritto: «Sono in corso verifiche istruttorie». Inutile mandare mail, sollecitare e chiedere chiarimenti. Intanto tra poco scadrà il bando per il concorso in Rai, e io devo ringraziare di avere un lavoro, perché se non lo avessi probabilmente non potrei nemmeno accedere alla competizione: il mio permesso di soggiorno è in via di rinnovo, mentre il bando chiede per chi è nato fuori dall’Ue un permesso «in corso di validità».
Nel 2017, quando la legge sullo ius soli si arenò in Senato, non lavoravo ancora come giornalista, leggevo però i giornali e mi arrabbiavo perché passava l’idea che la cittadinanza fosse un “semplice foglio di carta”, che in fondo ci si poteva sentire italiani anche senza. Mi arrabbiavo perché non avere la cittadinanza per chi come me ha studiato, vissuto e lavora in Italia porta con sé una serie di ingiustizie e ostacoli pratici con cui ci si scontra quasi quotidianamente.
Mi ero promessa allora che se un giorno fossi diventata giornalista, nel mio piccolo, avrei cercato di portare il focus sul vero problema. Un problema pratico, reale, che tocca la vita di migliaia di ragazzi come me. Un problema di quelli in cui il colore politico dovrebbe entrare molto poco.