La cultura dà lavoro, anche in Italia: 830 mila le persone occupate nel settore. Ma quasi la metà è freelance
A una prima occhiata potrebbe sembrare una bufala. E invece, il settore delle imprese culturali e creative italiane è vivo e attivo, e genera l’1,7% del fatturato complessivo italiano. Una buona notizia per un Paese come il nostro, che di patrimonio culturale ne ha letteralmente da vendere. Qualche nota amara condisce, però, la ricca insalata: mentre le imprese spingono di più verso gli investimenti, i finanziamenti pubblici scarseggiano. E molti talenti rischiano di rimanere abbandonati a loro stessi, soprattutto se freelance.
I dati positivi: le aziende investono
A testimoniare il buon andamento del settore culturale sono i dati Eurostat risalenti al 2017 e pubblicati a dicembre dello scorso anno. Il peso dell’industria culturale è pari al 3,6% dei lavoratori, che coinvolge circa 830mila persone (3,8% la media europea), per un prodotto che vale l’1,7% del fatturato (in linea con la media Ue) e il 2,3% del valore aggiunto (2,7% negli altri Paesi Ue). A dare ulteriori prove della vivacità finanziaria del settore è un recente studio di Intesa Sanpaolo a cura della Direzione studi di Mediocredito Italiano, la Fondazione Fitzcarraldo e le associazioni di categoria di editoria, spettacolo dal vivo, musei, musica, produzioni video e cinematografiche.
Indagando un campione di 119 aziende del settore, l’82,4% dei soggetti ha dichiarato di aver realizzato investimenti negli ultimi 3 anni e, di queste aziende, circa un terzo dichiara di averlo fatto «in maniera significativa». Oltre all’investimento nell’innovazione tecnologica, un fattore trainante per lo sviluppo futuro sarà anche «la presenza di capitale umano qualificato», come sottolinea Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo.
Qualche “ma” sui finanziamenti
In questo quadro positivo, il direttore generale di Microcredito Italiano Stefano Firpo ha individuato però tre ostacoli: la burocrazia, il difficile accesso alle risorse e la scarsità dei finanziamenti pubblici, fondamentali per le imprese culturali. «La mancanza di finanziamenti è particolarmente sentita in un contesto in cui stanno mutando le abitudini e le modalità di fruizione di beni e servizi culturali e creativi», ha detto Firpo. Come sottolineato dallo studio di Intesa San Paolo, il 59% degli intervistati fa ricorso a fonti esterne, che prevalentemente arrivano dal canale bancario. Ma la mancanza di finanziamenti messi a disposizione dal settore pubblico è considerata la prima minaccia per lo sviluppo futuro da parte dei 4/5 degli intervistati.
Una riforma degli investimenti era stata varata nel 2016 dall’allora (e attuale) ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, all’interno della legge sul Cinema e l’Audiovisivo. La normativa aveva messo in moto un sistema di investimenti “automatici” nell’ambito cinematografico: i fondi non sono più erogati sul progetto con lo scopo di sostenerne la produzione, ma a posteriori, sui risultati portati a casa (premi, distribuzione, etc), tramite a un sistema di valutazione che, incrociando criteri economici e culturali, attribuisce a ogni film un punteggio che corrisponderà a una cifra specifica.
Un modo, questo, che rischia di far piovere dov’è già bagnato, lasciando indietro chi ha bisogno di fondi per potere iniziare un percorso valido nel settore culturale. Una riforma che da un lato aiuta le imprese più stabili (almeno quelle che non tentano la strada economicamente rischiosa delle avanguardie), e che dall’altra parte non incoraggia i nuovi singoli talenti.
Molti dubbi sulla burocrazia nei Beni Culturali
Certo non poteva mancare lo spauracchio numero uno di ogni lavoratore: le scartoffie dell’amministrazione. Ad esempio, per quanto riguarda l’ambito dei beni culturali, la situazione italiana è un inferno burocratico. Nonostante dal 2014 sia in vigore la legge 110 (sempre di Franceschini) che sancisce il riconoscimento presso il ministero degli elenchi di ulteriori 7 professioni (archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte), i decreti attuativi non sono ancora stati emanati. Oltre a non esaurire le professioni in circolo, il Ministero non ha tutt’ora diffuso dei bandi ad hoc per consentire ai professionisti di essere riconosciuti per quello che fanno. Tra archeologi inquadrati come “operai dell’ediliza” e organizzatori di attività culturali per bambini segnati come “collaboratori generici”, gli occupati hanno ancora molti ostacoli nel loro percorso professionale.
I dati sugli occupati
Come mette in luce il grafico Eurostat, in Italia il numero dei freelance nel settore culturale è al 46% – praticamente quasi la metà di chi lavora. Un dato significativo, considerando che in Italia, dove freelance è ancora sinonimo di “precario” più che di “indipendente”, la media di lavoratori autonomi sul totale delle occupazioni è ferma attorno al 22%. Molti dei lavoratori nell’ambito culturale sono inoltre giovani. La percentuale di impiegati under 30 si aggira attorno al 12%, in un settore che da solo occupa più o meno la stessa percentuale di lavoratori.
Artisti, scrittori, giornalisti
Del settore culturale fanno parte anche artisti performativi, autori, scrittori, giornalisti, linguisti. In tutta Europa, nel 2017 se ne contavano oltre due milioni, circa il 23% del totale degli occupati. Come è facile aspettarsi, circa il 48% di loro è freelance: in Italia, la percentuale è oltre il 62%, a fronte di un 21% rappresentato dalla categoria nel settore culturale.
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