Perché Trump ha abbandonato i curdi e cosa sta succedendo tra Turchia e Siria. Spiegato in 3 minuti
L’avvertimento era arrivato sabato 5 ottobre. Durante la convention annuale dell’Akp, il suo leader, e presidente turco, Recep Tayyp Erdogan non aveva usato giri di parole: «Condurremo un’operazione aerea e sul terreno» ad Est del fiume Eufrate, nel nord della Siria. Una dichiarazione che aveva subito scosso le Ypg, le milizie curde di protezione popolare che erano state decisive nella lotta all’Isis.
Lunedì 7 ottobre l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria ha dato il formale semaforo verde all’operazione della Turchia in territorio curdo, nella zona controllata dalle Ypg. «Siamo pronti a entrare in Siria in qualsiasi momento», ha annunciato il presidente turco che da anni, soprattutto a seguito dello scoppiare del conflitto in Siria, cerca di arginare la creazione di uno stato curdo indipendente ai confini con la Turchia.
«Dopo la telefonata di ieri (ndr 6 ottobre) con il presidente americano Trump il ritiro americano è passato dalle parole ai fatti. Ho detto a Trump chiaramente che siamo pronti a entrare in Siria in qualsiasi momento», ha detto Erdogan.
Il presidente turco non ha quindi perso tempo e poche ore dopo l’annuncio americano ha sferrato un raid aereo contro le Forze democratiche siriane nei pressi di al-Malikiyah, nel governatorato di al-Hasakah, nell’estremo nord-est della Siria, vicino al confine con l’Iraq.
Il ritiro americano: un apripista ad Erdogan
Con una nota, la Casa Bianca ha annunciato che «le forze statunitensi non sosterranno né saranno coinvolte nell’operazione e le truppe Usa, che hanno sconfitto il califfato territoriale dello Stato islamico, non saranno più nelle immediate vicinanze». Così, in poche righe, Washington ha fatto sapere che non continuerà a sostenere gli alleati curdi, pilastro fondamentale della lotta degli Usa contro lo Stato Islamico.
Le milizie Ypd/Ypg, membro principale delle Forze democratiche siriane (Sdf), la coalizione guidata dagli Stati Uniti nella lotta a Daesh, sono state strumentali nella sconfitta del gruppo jihadista. Le parole di Trump, che su Twitter ha avallato il ritiro, sono di fatto un apripista al piano del presidente turco che da anni conduce una lotta domestica, e fuori dai confini turchi, contro la minoranza curda.
Le milizie Ypg sono considerate da Ankara affiliate del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione etichettata come terrorista, oltre che dalla Turchia, anche da Unione europea e Stati Uniti.
La chiamata tra Trump e Erdogan: pentagono diviso
Il 7 agosto Usa e Turchia avevano trovato un’intesa, definita poi da Erdogan “una favoletta”, per ottenere il controllo di un’area che si addentra per circa 32 chilometri e si estende per 480 chilometri in territorio siriano a est del fiume Eufrate, fino al confine con l’Iraq. Un’intesa che secondo il presidente Erdogan non sarebbe mai stata rispettata dagli Stati Uniti.
Secondo la Turchia, l’accordo prevedeva la creazione di una zona cuscinetto che si estendeva per 30 chilometri dentro il confine siriano, con la seguente eliminazione dei membri delle forze curde Ypg.
Il nuovo piano lanciato nelle scorse ora da Erdogan ha però due obiettivi annunciati. Oltre alla già dichiarata guerra al gruppo curdo considerato terrorista da Ankara, la Turchia, che ospita 3.6 milioni di profughi siriani, vorrebbe ricollocarne 2 milioni nell’area a presenza curda.
Gli Usa si sono già ritirati dalle zone di Tell Abyad e Ras al-Ain. Ma il Pentagono appare diviso sulla decisione presa dal capo della Casa Bianca. Il ministero della Difesa ha chiarito alla Turchia – come ha fatto il presidente – «che non approviamo un’operazione turca nel nord della Siria».
As I have stated strongly before, and just to reiterate, if Turkey does anything that I, in my great and unmatched wisdom, consider to be off limits, I will totally destroy and obliterate the Economy of Turkey (I’ve done before!). They must, with Europe and others, watch over…
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) October 7, 2019
Washington ha chiarito che gli Stati Uniti ritireranno solo un piccolo numero di soldati al confine turco. Un chiarimento che fa eco a quello lanciato da Donald Trump che ha messo in guardia l’alleato della Nato su un’operazione su larga scala: «Come ho già detto in precedenza, e solo per ribadire, se la Turchia fa qualcosa che io, nella mia grande e insuperata saggezza, considero off limits, distruggerò e cancellerò totalmente la sua economia (l’ho già fatto prima!)».
Le precedenti operazioni
Già nel 2016 e a gennaio 2018, la Turchia, con le operazioni Scudo dell’Eufrate, prima, e Ramoscello d’Ulivo, poi, aveva paventato le sue reali intenzioni: smantellare l’area autonoma curda del Rojava, creatasi nel nord della Siria a seguito della guerra civile scoppiata nel 2011. Alla fine di agosto del 2016 l’esercito turco penetrò nel centronord della Siria da Karkamis, eliminando l’Isis dalle province di Al Bab, Jarabulus, Azaz e Mare.
L’operazione Scudo dell’Eufrate, finita a marzo 2017, nacque formalmente in contrasto al califfato di Raqqa, ma mirava soprattutto ad anticipare i curdi siriani del Pyd-Ypg, che in quel caso si sarebbero avvicinati pericolosamente all’enclave di Afrin.
Il primo passo per impedire la nascita di un corridoio curdo che da Qamishli giungesse ad Afrin, ormai in cima alla lista delle priorità assolute di Ankara. Un intervento non direttamente contro i curdi siriani, ma realizzato a scapito di questi ultimi, mostratisi agli occhi della comunità internazionale credibili nel governare la propria regione e affidabili alleati nella lotta all’Isis, dopo la resistenza a Kobane e il ruolo decisivo giocato (in seguito) nelle battaglie per la caduta del califfato a Tel Abyad, Mosul e Raqqa.
Il 18 marzo 2018 terminava invece l’operazione Ramoscello d’Ulivo che ha portato la Turchia a conquistare l’enclave di Afrin, grazie anche al via libera russo dopo che Mosca aveva ritirato il suo contingente di stanza nella provincia siriana.
La reazione curda
Non si è fatta attendere la risposta dei curdi che hanno detto di aver preso la decisione americana come «una pugnalata alle spalle». A dirlo è una portavoce delle forze democratiche siriane (Sdf), Kino Gabriel.
Gabriel ha ricordato che ai curdi era stato assicurato, da parte statunitense, che «non avrebbero mai consentito alcuna operazione militare turca contro la regione».
Isis sconfitto? Il rischio di una rinascita
Ma mentre la politica americana appare divisa sulle decisioni da prendere, in Siria i rischi derivanti da un’operazione militare turca sono molti. In primo luogo a preoccupare le forze democratiche siriane è la rinascita dello Stato Islamico.
Nel campo di Al Hol, controllato dai curdi siriani alleati degli Usa, sono detenuti più di 10mila combattenti jihadisti dell’Isis, tra cui 2mila foreign fighters.
Secondo l’intelligence americana, così come era stato per il Camp Bucca, che forgiò i futuri combattenti dell’Isis, tra cui il suo capo Abu Bakr al-Baghdadi, la reclusione si sta trasformando in un focolaio per la diffusione dell’ideologia jihadista.
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