Neet, i dati allarmanti sui giovani italiani che non studiano e non cercano lavoro. L’Unicef: «Per aiutarli le istituzioni devono cambiare»- L’intervista
Giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione: è questa la definizione di Neet, (l’acronimo è in inglese, Neither in Employment nor in Education or Training), un problema sociale che da anni affligge il nostro Paese.
In Italia sono oltre due milioni tra i 15 e i 19 anni, e la retorica dei giovani «pantofolai», «bamboccioni», «choosy» o addirittura «sfigati» non regge più. Davanti a numeri del genere, è necessario chiedersi quali siano le mancanze sociali e istituzionali che hanno permesso un tale depotenziamento delle giovani generazioni.
A dare una risposta ci hanno provato da Unicef Italia, che ha appena pubblicato un rapporto dal titolo Il silenzio dei Neet. Giovani in bilico tra rinuncia e desiderio – che mostra come l’Italia sia prima in Europa per numero di Neet.
Una risposta che sia prima di tutto pratica, e che si inserisce all’interno del progetto globale Generation Unlimited, che si pone come obiettivo quello di contribuire all’inserimento dei giovani di tutto il mondo in percorsi scolastici, formativi o lavorativi entro il 2030.
Il lavoro di Unicef si chiama “NEET Equity“, selezionato dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale nell’ambito dell’Avviso “Prevenzione e contrasto al disagio giovanile” (ID 189/Avviso Disagio). Si sviluppa in tre comuni italiani (Napoli, Taranto e Carbonia) e si pone l’obiettivo generale di migliorare la capacità del territorio nel costruire politiche attive partecipate a favore della inclusione dei giovani inattivi.
Open ha intervistato Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia e responsabile del progetto, che ha provato a dare un quadro delle criticità del nostro Paese. «Creare spazi di ascolto, di coinvolgimento e di scoperta di sé – ha detto – è fondamentale per far tornare a questi ragazzi la fiducia nel futuro».
Il vostro studio conferisce all’Italia un primato preoccupante. Ma come si può parlare del problema senza che si cada nella retorica dei giovani bamboccioni?
«Attraverso questo progetto stiamo cercando in primis di ascoltare i ragazzi, cosa che nel corso del tempo ci ha permesso anche di capire meglio il fenomeno. I dati Istat del 2018 sono una conferma della situazione del 2017: un quarto dei giovani, in Italia, è inattivo.
Questo è un problema che ci allarma. Se abbiamo i nostri giovani che sono inattivi, siamo davanti al contrario del termine stesso: i giovani dovrebbero essere i più attivi di tutti.
Il tema è complesso perché anche il contesto sociale contribuisce a rimescolare le variabili in gioco. Il punto da cui partire è la scoperta dei talenti: questi giovani si sono arresi, hanno smesso di cercare. Il primo passo deve essere quello di restituirgli fiducia e speranza.
Bisogna intervenire, perché altrimenti si finisce solo per parlare sui giornali di aziende che non trovano giovani per lavorare. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona nella comunicazione di queste possibilità».
Quali sono le difficoltà reali che riscontrano questi ragazzi?
Ci sono diverse motivazioni che spingono un ragazzo o una ragazza a ritirarsi dalla società. In alcune regioni, come la Campania, la Sardegna e Sicilia, che sono anche più povere, le problematiche sono certamente più evidenti. Ma anche al Nord la situazione non è rosea: siamo comunque attorno al 15%.
Quello che noi chiamiamo «ritiro sociale» avviene in due momenti: da una parte c’è la persona che si isola, dall’altra la società, le istituzioni, che non danno occasioni né stimoli per rimanere.
Prendiamo ad esempio Scampia, il quartiere di Napoli: ora ci sono tantissimi interventi locali, molte associazioni che lavorano per migliorare le condizioni di vita dei ragazzi. Ma lo Stato non dà reali possibilità economiche alternative al lavoro nero. Non ci sono possibilità concrete.
Sì, in Italia trovare lavoro è difficile, ma non è impossibile. Hanno perso fiducia: noi parliamo di ritiro sociale. Non si risolve dall’oggi al domani, serve a un’azione strutturale. Pensiamo alla scuola, ai centri di assistenza.
Il problema è sia culturale sia economico. Ma cosa fa sì che l’Italia sia prima in Europa per numero di neet?
«Non è indifferente l’instabilità politica. Se un governo dura un anno, non fa nemmeno in tempo a studiare il problema, figurarsi a attuare le soluzioni.
Oltre a questo, c’è appunto una questione culturale. Da sempre in Svezia, che ha un tasso molto basso di inattività, la politica sociale è presente. Che non vuol dire assistenza. Sono attenti alla famiglia, ai giovani, alle possibilità che danno».
Il titolo di studio fa la differenza?
«Nei laureati la percentuale non è altissima, attorno all’11%. Chi tra loro si ferma è perché si trova davanti a interrogativi come: ho sbagliato laurea? Questo titolo mi rispecchia?
Ma la maggior parte dei neet si è fermata molto prima di arrivare all’università. Bisogna far scoprire le loro i talenti e le capacità che sanno tirar fuori».
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