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Caos Brexit, svolta all’ultimo: Tusk riceve la lettera che chiede la proroga. Johnson: «L’ho mandata ma non l’ho firmata»

19 Ottobre 2019 - 23:12 Redazione
Il premier inglese ha ceduto: ha inviato una lettera a Donald Tusk chiedendo il rinvio della Brexit. Ora dovranno pronunciarsi i paesi europei

Boris Johnson è stato battuto senza che i deputati potessero respingere il suo accordo per la Brexit trovato in extremis con l’Unione europea. Invece di votare l’accordo, i deputati hanno approvato un emendamento presentato dal conservatore moderato ed europeista, Sir Oliver Letwin, che impone di posticipare il voto finale finché non sarà approvata tutta la legislazione prevista, di fatto rinviando il voto finale e quindi la Brexit. Sono 322 i deputati che hanno votato a favore dell’emendamento presentato da Letwin, 306 invece i contrari. Johnson, in un primo tempo aveva ribadito la sua volontà di andare avanti e, sfidando il parlamento, a veva dichiarato di non essere intenzionato a negoziare un’ennesima proroga con l’Unione europea, nonostante una legge votata a inizio settembre (nota come il Benn Act) imponga al premier di chiedere un’estensione all’Ue nel caso di mancato accordo entro il 19 ottobre, ovvero entro le 11 di questa sera. E così è stato. Poco dopo le undici di sera Donald Tusk ha twittato di aver ricevuto la lettera inglese che chiede la proroga.

Ma sono state ore difficili per il primo ministro inglese. Prima la notizia della lettera in preparazione è circolata informalmente. Poi, dice la Bbc, Downing street ha fatto sapere che la lettera era sì partita ma senza la firma di Boris Johnson. Le stesse fonti aggiungono che a questa lettera ne segue una seconda, firmata dal primo ministro che spiega esplicitamente di considerare la proroga «un errore». In ogni caso la richiesta dovrà essere votata dai paesi membri dell’Ue.

Le tre lettere

Effettivamente, pochi minuti dopo la conferma che la lettera partita da Downing street era effettivamente giunta nel computer di Donald Tusk, è circolato il testo anche della seconda missiva. Quella in cui Johnson prende le distanze dal primo documento, definendo la ulteriore proroga un errore. Complessivamente, dunque i testi inviati a Donald Tusk da Londra sono tre, come precisa Downing Street. Una lettera non firmata del premier, molto sintetica, in cui viene chiesta la proroga. Una dell’ambasciatore britannico all’Ue, Tim Barrow, in cui si precisa che la richiesta è legata a un obbligo di legge a causa dell’approvazione del Benn Act nel Parlamento di Westminster. E una terza firmata da Johnson nella quale il primo ministro argomenta sulla non necessità del rinvio della Brexit oltre il 31 ottobre, sottolineando come il suo governo non lo ritenga una soluzione in linea né con gli interessi di Londra, né con quelli di Bruxelles.

Prima del voto Johnson aveva già raccolto diversi “no”, non soltanto dall’opposizione ma anche dagli alleati di governo del Partito unionista democratico nordirlandese. In mattinata però era arrivato un segnale incoraggiante da parte dei “falchi” o puristi della Brexit quando Steve Baker, presidente del European Research Group, un influente gruppo conservatore che in passato aveva bloccato i tentativi di Theresa May di far approvare l’accordo da lei negoziato, aveva consigliato ai propri membri di appoggiare il premier. Ma non è stato sufficiente per bloccare l’emendamento di Letwin.

L’approvazione dell’emendamento è stato accolto da un boato fuori da Westminster. Mentre i deputati dibattevano dell’accordo con l’Ue, migliaia di persone marciavano per le strade di Londra per chiedere un secondo referendum sulla Brexit.

Il discorso di Boris Johnson, Corbyn ribadisce il suo “no”

A Westminster la giornata in parlamento comincia con un discorso di Boris Johnson, iniziato puntualmente alle 10.30 (orario italiano). Rispetto ai discorsi precedenti, il premier ha adottato un tono più conciliante del solito, ricordando però alla Camera che si tratta del «secondo accordo e il quarto voto a tre anni e mezzo dal referendum». Difendendo quanto ottenuto a Bruxelles, Johnson ha dichiarato che «con questo accordo, avremo una vera Brexit, riprenderemo il controllo dei confini, delle leggi, del commercio, agricoltura e pesca».

Se in passato aveva giocato con l’idea di una Brexit a “tutti i costi”, Johnson ha sottolineato di non voler un’uscita senza accordo (nota come “no deal Brexit”), scongiurando però al tempo stesso la possibilità di una nuova proroga, di un’ennesima estensione. Niente di ciò che ha detto Johnson ha però convinto il leader dei laburisti e capo del primo partito di opposizione Jeremy Corbyn il quale ha ribadito il suo “no” e rilanciato la possibilità di un secondo referendum: «Votare oggi non porterà alla Brexit, il popolo dovrebbe avere ultima parola». «Capisco completamente la frustrazione e la fatica nel Paese e in questa Camera – ha continuato Corbyn.- ma semplicemente non possiamo votare per un accordo che è anche peggio di quello respinto da questa Camera tre volte». Dopo di lui è arrivato anche il “no” del partito nazionalista scozzese (SNP) – preoccupato per l’impatto economico della Brexit sulla propria economia e per un accordo che ritiene peggiore rispetto a quello di Theresa May – e anche dal leader dei liberal democratici Jo Swinson che ha fatto eco a Corbyn nel chiedere un nuovo referendum che, a suo dire, Johnson vuole evitare «perché sa che perderebbe».

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