Le strade di Stefano: audio, atti giudiziari, testimonianze. Dieci anni dopo – il web doc
Oggi è il decimo anniversario della morte di Stefano Cucchi. Il 14 novembre è attesa la sentenza per i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale
Sono passati dieci anni eppure il processo sulla morte di Stefano Cucchi è ancora in corso. La sentenza, la seconda, è attesa per il 14 novembre (di primo grado per i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di Appello per i medici che lo ebbero in cura).
Per ricordarlo e tenere a mente quanto a lungo molte parti di questa storia sono state nascoste, abbiamo deciso di ripercorre quei giorni fermandoci in tutti i punti rilevanti.
Dall’arresto all’ultima notte nell’ospedale Pertini. Facendoci accompagnare da testimonianze, atti giudiziari e dalla sua stessa voce.
Via Lemonia, L’arresto
La sera del 15 ottobre 2009, intorno alle 23.30, Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni, viene fermato da una pattuglia di carabinieri al Parco degli Acquedotti, in via Lemonia a Roma. La pattuglia è composta da Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo e Gaetano Bazzicalupo, cui si uniscono i due carabinieri in borghese Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Stefano è stato visto cedere a Emanuele Mancini delle confezioni di hashish per 20 euro. Viene perquisito sul posto e gli vengono trovate addosso altre dosi di stupefacenti.
Secondo la deposizione dei carabinieri che hanno effettuato l’arresto – il giorno dopo, nel corso dell’udienza di convalida – Stefano sta cedendo «a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota». Viene fermato con «20 grammi di hashish, suddivisi in 12 pezzi, tre bustine presumibilmente di cocaina e due pasticche». Una è per l’epilessia, di cui il geometra romano soffre (anche se non ha crisi da cinque anni).
Caserma Appio Claudio, il fermo
Stefano Cucchi viene portato alla caserma Appio-Claudio. Prima dell’arresto e dell’arrivo in caserma non ha alcun trauma fisico. Il fermo di polizia è firmato solo da Aristodemo e Tedesco e Bazzicalupo ma con loro ci sono sempre Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Ci sono anche loro, secondo il racconto del collega Tedesco, durante il trasferimento di Cucchi nella prima caserma.
Requisitoria Cucchi | 20 set 2019 _ Parte 2
Via Ciro Da Urbino, la perquisizione
Dalla Caserma Appia Stefano Cucchi viene portato a casa dei genitori, a Roma est, per la perquisizione: i carabinieri – tre in borghese e due in divisa – non trovano nulla. D’Alessandro e Di Bernardo sono anche qui, e il verbale di perquisizione è l’unico atto, nel corso del primo processo, in cui i due vengono menzionati. «Non si preoccupi signora, non è nulla. Domani suo figlio è a casa», dicono i carabinieri alla madre. È l’1.30 di notte. Sarà l’ultima volta che Rita vedrà suo figlio Stefano. In quel momento, secondo le testimonianze della famiglia, non c’è niente di strano nell’aspetto fisico del ragazzo.
Caserma Casilina, il pestaggio
«Io, Di Bernardo e D’Alessandro portiamo poi Cucchi alla Caserma Casilina», testimonia Tedesco durante il processo Cucchi Bis. Qui sta il passaggio che fino all’apertura della seconda indagine, nel 2015, era rimasta nascosta. I carabinieri portarono Cucchi nella caserma Casilina per foto segnalarlo, anche se tutte le tracce di questo passaggio erano state cancellate.
Secondo l’accusa, il pestaggio da parte dei carabinieri sarebbe avvenuto proprio in quel momento. E l’ipotesi sostenuta oggi dalla procura è che quelle botte, successivamente mal curate in ospedale, abbiano causato la morte di Stefano Cucchi.
«Un violentissimo pestaggio degno di teppisti da stadio», dirà il pubblico ministero Giovanni Musarò.
A raccontarne la dinamica, in tribunale, è Francesco Tedesco che, dopo anni, l’anno scorso ha deciso di confessare quello che sapeva. «Raffaele D’Alessandro gli dà un calcio e sento la testa di Stefano sbattere a terra», dice Tedesco in aula. «Mentre è a terra D’Alessandro gli dà un altro calcio in faccia».
Tedesco racconta il pestaggio di Cucchi:
«Lo hanno preso a calci mentre era a terra»
Tor Sapienza, primi malori
Stefano Cucchi viene portato nella stazione di Tor Sapienza, dove passa la notte in una cella di sicurezza. Alle 4 del mattino viene chiesto l’intervento del 118: Cucchi lamenta dolori in tutto il corpo. Quando però arriva il personale medico, il 31enne rifiuta di farsi visitare, rimane coperto e con il volto rivolto verso il muro.
Anche qui però c’è qualcosa che non torna e che, per anni, viene nascosta. I due carabinieri che sorvegliano la cella di notte il giorno dopo fanno una relazione di servizio, ma i superiori gli chiedono dwei modificarla. Gianluca Colicchio si rifiuta, anche se un file a sua firma viene prodotto. Francesco Di Sano accetta: dalla nota scompaiono i dolori di cui parlava Cucchi e appare invece un riferimento alla «accentuata magrezza».
Di Sano oggi è accusato di falso assieme al comandante di stazione, Massimiliano Colombo e a un altro carabiniere. Da qui si è aperto un altro filone di indagine della Procura di Roma sui depistaggi che sarebbero stati messi in atto fin da subito anche da alti graduati dell’Arma e per cui ci sono oggi otto carabinieri rinviati a processo.
Piazzale Clodio, Tribunale
Il giorno dopo Stefano viene processato per direttissima. Durante l’udienza di convalida dell’arresto, al tribunale di piazzale Clodio a Roma, parla faticosamente. Ha ematomi agli occhi. Si confonde, chiede scusa.
«Mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio, colpevole per la detenzione per uso personale».
In udienza Stefano si dichiara tossicodipendente, colpevole di detenzione per uso personale e «non colpevole per quanto riguarda lo spaccio». All’udienza partecipa il padre, Giovanni, che quando torna a casa racconta alla famiglia dei segni sotto gli occhi del figlio. La giudice stabilisce una nuova udienza per il 13 novembre e dispone la custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli. Cucchi morirà prima.
Fatebenefratelli, il referto
Dopo l’udienza, Stefano viene visitato presso l’ambulatorio del Palazzo di Giustizia: «Lesioni in regione palpebrale, alla regione sacrale e agli arti inferiori», si legge sul referto.Il medico si limita a fargli una battuta sui lividi, al pm dirà di non aver creduto alla caduta dalle scale per spiegare i lividi che vede sul corpo. Ma non fa nulla. Dopo il primo ingresso a Regina Coeli, viene portato al Fatebenefratelli. Sul nuovo referto dell’ospedale si legge: «Lesioni ed ecchimosi al viso e alle gambe, mascella fratturata, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale». Secondo le testimonianze, Stefano torna in carcere perché rifiuta il ricovero.
Regina Coeli, l’ultima detenzione
E’ nel passaggio a Regina coeli (ce ne sono due uno prima e uno dopo il controllo al Fatebenefratelli) che Cucchi ammette per ben due volte di essere stato picchiato. Prima di tutto con un appuntato della penitenziaria, a cui dice anche che a picchiarlo sono stati i carabinieri.
E poi con un detenuto, Lainà: «Stefano sembrava una zampogna tanto era gonfio, mi disse con un filo di voce: sono stati i carabinieri, si sono ‘divertiti’ con me. La mattina seguente il suo arrivo mi sono avvicinato. ‘Chi ti ha ridotto cosi’?, gli chiesi. Stefano mi disse che nella prima caserma dove fu portato dopo l’arresto per detenzione di droga, fu picchiato da due carabinieri in borghese. Si fermarono solo dopo l’arrivo di un ‘graduato’ in divisa».
Ospedale Pertini, l’ultima notte
Cucchi muore all’ospedale Sandro Pertini intorno alle 3 di notte, il 22 ottobre 2009: al momento del decesso pesa solamente 37 chili. La madre viene a sapere della sua morte quando un carabiniere arriva in casa e le chiede di firmare i documenti per l’autopsia. Nei sei giorni di arresto, i genitori hanno provato a mettersi in contatto con lui e a fargli visita. Invano: lo rivedranno solo da morto. Quello stesso corpo martoriato da un violentissimo pestaggio che la famiglia ha poi deciso di mostrare alla stampa pochi giorni dopo per denunciare quanto accaduto e chiedere giustizia.
«Caro Francesco, sono al Sandro Pertini in stato di arresto. Scusami se sono di poche parole, ma sono giù di morale e posso muovermi poco», scrive con grafia incerta, di chi sta soffrendo Stefano Cucchi in una lettera, poche ore prima della morte indirizzata a uno degli operatori della sua comunità terapeutica Ceis.
Il testo era stato diffuso nel 2010 dalla famiglia: la lettera è stata poi mostrata nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, nel corso della requisitoria finale dell’avvocato Fabio Anselmo nel processo Cucchi bis per la morte del giovane geometra romano. «Si è detto anche che Stefano si era lasciato andare, che si è lasciato morire. Che praticamente era un morto che camminava. Questa lettera dimostra il contrario», dice l’avvocato Anselmo. «Stefano voleva vivere, non voleva morire».