Il Buco nell’ozono si è ridotto grazie al Riscaldamento globale? Non è proprio così
Era dal 1982 che non si vedeva un buco dell’ozono così “piccolo”. Ed era da tanto che non se ne parlava più. Lo rivelano i dati raccolti dalla Nasa e dal Noaa (Agenzia americana per le ricerche in atmosfera e negli oceani), nell’alta atmosfera al di sopra dell’Antartide, la cui calotta glaciale è già motivo di attenzione per i problemi relativi ai cambiamenti climatici. La questione del buco dell’ozono non è più un problema impellente come lo è oggi il Riscaldamento globale, e i due fenomeni non sono necessariamente correlati. Questo però non significa che lo strato di ozono non venga ancora monitorato. Il fatto che non si parli più del buco dell’ozono (almeno mediaticamente), viene comunque usato dai negazionisti del cambiamento climatico come esempio del fatto che anche gli appelli a ridurre le emissioni siano piuttosto esagerati. In realtà le cose non stanno proprio così, semplicemente ci siamo scordati alcuni passaggi.
Parlateci del buco dell’ozono
L’ozono presente nell’ozonosfera permette di schermare buona parte delle radiazioni ultraviolette (Uv-B), rendendo possibile la vita sulla Terra. Le radiazioni ultraviolette in grandi quantità sono infatti nocive per microorganismi, piante e animali. L’ozono funge così da filtro assorbendo le radiazioni ultraviolette, così le sue molecole si decompongono. Il suo monitoraggio infatti è importante perché decomponendosi in O2 e “ossigeno radicalico“, può essere responsabile dell’insorgenza di tumori. Ma poi l’ozono ciclicamente si rigenera, cosa che viene impedito dalle emissioni di Clorofluorocarburi (Cfc), riducendo l’efficienza di questo filtro naturale. Quello che viene convenzionalmente chiamato “buco” è così variabile, anche in ragione dell’attività solare e della posizione geografica. Sappiamo dell’ozonosfera da pochi decenni, a partire dalle prime misurazioni di Sherry Rowland negli anni ’70. Il suo pericoloso assottigliamento venne rilevato invece a partire dal 1985 sopra le regioni polari.
Inizialmente si pensò che i responsabili fossero esclusivamente i Cfc, emessi soprattutto da refrigeranti dei frigoriferi e bombolette spray (al tempo sul banco d’accusa dei media finirono soprattutto le lacche per capelli), oggi sappiamo che ad assottigliare lo strato di ozono contribuirono anche altre sostanze. Dal 1987 grazie al Protocollo di Montréal diverse potenze industriali si impegnarono a ridurre le emissioni di Cfc. Anche allora, come oggi, esistevano “scienziati dissidenti” che negavano la responsabilità umana, visto che i Cfc in atmosfera sono sempre esistiti. Il segretario dell’Onu Kofi Annan definì l’iniziativa «un esempio di eccezionale cooperazione internazionale: probabilmente l’accordo di maggior successo tra nazioni». Fatto sta che dal 2016, con uno studio del Mit, il buco dell’ozono è risultato ridotto di 4 milioni di chilometri quadrati rispetto al 2000, in corrispondenza all’impegno di ridurre le emissioni di Cfc. Due anni dopo la Nasa confermava una riduzione del 20% rispetto al 2005. Forse è per questo che “non ci parlano più del buco dell’ozono”. Anche se per la verità in ambito accademico si continua a parlarne eccome.
Riscaldamento globale e buco dell’ozono
Tuttavia un collegamento coi cambiamenti climatici potrebbe esserci, anche se non sarebbero come potremmo aspettarci. I risultati delle ultime misurazioni della Nasa e del Noaa, confermerebbero infatti per la terza volta in 40 anni l’ipotesi che l’aumento delle temperature possano limitare l’esaurimento dell’ozono, che infatti è un inquinante in bassa atmosfera. Va precisato però che come spiegano gli stessi autori «non esiste una connessione identificata tra il verificarsi di questi modelli unici e i cambiamenti climatici». Insomma, sostenere che le nostre emissioni «fanno bene alla Natura», come sostenuto in una recente lettera di negazionisti riguardo alla CO2, lascia un po’ il tempo che trova.
Foto di copertina: NASA/Il buco dell’ozono nel settembre 2000.