“La nostra strada”: il documentario sull’abbandono scolastico nel quartiere Zisa di Palermo – L’intervista
Quartiere Zisa, Palermo est. Ogni mattina il professor Mannara fa lezione alla scuola media del rione, davanti a banchi pieni di “invisibili”. Ragazzi e ragazze dimenticati, messi da parte da una narrazione e un sentire comune ancorati alla mafia e alla cronaca nera. Ma è di Morena, Desirée, Daniel, Simone che parla il documentario La nostra strada, in proiezione al Festival del Cinema di Roma: 4 adolescenti con nomi e cognomi, che cercano la loro strada ai confini dell’Italia.
Pochi giorni fa, un rapporto di Save The Children ha svelato percentuali allarmanti sulla povertà nel Mezzogiorno e sull’abbandono scolastico in regioni come Sicilia, Campania e Calabria. Nel 2018, la Sicilia era la terzultima regione europea per tasso di occupazione giovanile, seguita dalla Macedonia occidentale e dalle isole del nord Egeo. Solo nel quartiere popolare dove è ambientato il documentario la disoccupazione è al 50%, mentre la dispersione scolastica raggiunge picchi dell’8%.
«È un lavoro politico. Raccontando loro spiego alle altre persone da dove viene una certa rabbia sociale che percepiamo nel Paese», dice a Open Pierfrancesco Li Donni, regista del documentario, che a Palermo ci è nato e tutt’ora ci vive, insegnando il suo mestiere al centro sperimentale di Cinematografia. «Voglio raccontare gli invisibili di un altrove che ci è prossimo – dice – ma che spesso non vediamo».
Il dialetto ausitano, la specifica variante palermitana del siciliano, tiene le fila della pellicola e incolla le vite del quartiere le une alle altre, in una trama di ruoli sociali e aspettative individuali «che ricorda i meccanismi dell’Italia degli anni ’50». Zisa non è solo un rione, è una comunità: e come tutti i quartieri (ricchi o poveri) delle città, ha le sue regole di sopravvivenza.
Prodotto da Ladoc con il contributo di Siae e con il sostegno della Sicilia Film Commission nell’ambito del progetto Sensi Contemporanei, verrà proiettato oggi ad “Alice nella città”, la sezione autonoma e parallela del festival romano dedicata alle giovani generazioni. Il titolo è provvisorio e il documentario è work in progress, dato che Li Donni ha intenzione di seguire i protagonisti per ancora molto tempo.
Li Donni, perché Zisa? Cos’ha di peculiare rispetto al resto dei quartieri d’Italia?
«Io sono un palermitano che ha vissuto molto tempo fuori dalla sua città. Tornando, in occasione anche del film, ho pensato che per restituire il respiro di Palermo bisognasse raccontare quella parte di città che non è stata toccata dalla gentrificazione, così da poter restituire lo spaccato di una periferia (che, nel caso particolare, è quasi centro storico).
È una parte della città che ancora vive con dei modi novecenteschi. Tutti si conoscono tra di loro. Se giri per le strade trovi ancora i venditori di patate e i paninari che vendono panini a un euro. Raccontare quel quartiere attraverso una classe, attraverso coloro che diventeranno gli adulti della città, significava dare voce a quella parte d’Italia che sta andando a rallentatore».
Nessuno dei ragazzi che segui vede la scuola come un’opportunità per migliorare la propria vita. La vera liberazione è economica, e soprattutto, immediata. Quali errori hanno fatto le istituzioni?
«Un po’ c’è sicuramente una pigrizia di fondo di questi ragazzi, perché non sono stupidi. Una delle protagoniste l’ho filmata durante il suo esame di terza media: parlava di Calvino, di partigiani. È stato commovente. Poi però la scuola non ha la capacità, anche solo economica, di sostenerli.
Loro non comprano nemmeno i libri, perché il quartiere stesso ti fa credere ogni giorno che sia una perdita di tempo – soprattutto se non sei bravo. E loro, che hanno bisogno di stare al centro dell’attenzione, di essere ascoltati, danno retta ai criteri della comunità per acquisire un ruolo sociale.
Uno status che evidentemente la scuola non riesce a garantire. Il metodo del professore nel documentario tenta proprio di andare in questa direzione: partire da uno spunto, una pagina di letteratura, un evento storico, una frase, per farli parlare di loro stessi. Solo in quel modo loro potranno entrare in contatto con la cultura, solo se questa non prende le distanze dalla vita. Il professore prova a trasmettergli che l’educazione serve in primis a loro per migliorare, sul lungo periodo, la loro quotidianità».
«Non è più tempo dei sogni», dice Desirée a un certo punto, quando invece di iniziare le superiori sceglie di andare a lavorare. Una maturità che sembra un’arma a doppio taglio..
«Sono molto maturi, sì. Ma è questa consapevolezza che li frega: Desirée lascia la scuola, va a fare il primo lavoro che trova dove non le danno nemmeno le ferie. E lo fa perché ha la convinzione – sbagliata magari – che non troverà altro.
Il quartiere ti insegna a essere “proletario”, se vogliamo usare una parola ormai caduta in disuso. È come trovarsi davanti all’Italia degli anni ’50. E anche loro interpretano il lavoro con una visione proletario-novecentesca, per cui lavorare serve a sfangare la giornata: comprarsi i vestiti, uscire, farsi dei regali».
L’italiano non sembra essere sentita come una lingua propria. Qual è il rapporto che hanno con il loro dialetto?
«Molti di loro vorrebbero parlare italiano, ma non è la lingua che fa status. A Palermo, e a Zisa anche, ci sono altri codici di linguaggio, e usare quelli del quartiere ti definisce e ti permette di avere un ruolo».
La forte pressione della comunità e del quartiere si percepisce anche nel fatto che molti di loro sembrano avere già le idee chiare su alcuni temi, come l’omosessualità. E molto spesso si percepisce una certa rabbia. È così?
«In un mondo in cui mancano i diritti, in un mondo in cui sei l’ultimo anello della categoria sociale, è normale che le tue preoccupazioni siano incentrate su di te. Io non ho uno sguardo giudicante, né lo vuole avere il mio lavoro. La scena in cui si parla di omosessualità ero indeciso se metterla o meno: io ho avuto altri strumenti per farmi altre idee. È evidente anche da altre cose, come dal fatto che se d’estate cammino con i sandali per loro sono un barbone. Mi chiamano “tavernaro” (ride, ndr)».
Una cosa colpisce: usano molto poco i social network,
«È vero. C’è un altro modo di vivere i pomeriggi. Si va nelle ville del quartiere, si gioca in strada, ci si muove come degli ossessi con questi motorini. E poi c’è un’altra cosa particolare: i bambini, come sogno dei 14 anni desiderano il cavallo. All’uscita di scuola si presentano questi ragazzi più grandi a fare i fichi con i cavalli. C’è il mito, sia perché lì vicino è pieno di stalle per le carrozze dei giri turistici, sia per le corse clandestine».
A cosa serve vedere “La nostra strada” per chi non è di Palermo?
«Il film è una sorta di incontro tra spettatori e questo mondo. Molto spesso le periferie delle città e le aree marginali del Paese vengono viste male. Quello che ho cercato di far capire è che sono i contesti che ti portano a essere e crescere in un determinato modo. Ma loro sono persone che si vogliono bene, che ci provano.
Mi verrebbe da aggiungere che l’articolo 34 della Costituzione bisognerebbe modificarlo: tutti dovrebbero avere il dovere di continuare a studiare, non il diritto. E questo è un qualcosa che i bambini capiscono troppo poco a causa del contesto e della grande sfiducia che c’è nel futuro. Ma è una cosa che alla fine li fregherà».
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