“Roma non è Gotham City!”. Così la città di Batman ha sostituito il Far West e Chicago come emblema fuorilegge
«Gotham City. Forse è tutto quello che mi merito, ormai. Forse è solo la mia condanna all’inferno». Quando nel 1987 uscì la miniserie Batman: Anno uno, era chiaro a tutti che la creatura di DC Comics non era più solo un fumetto. A distanza di più di 30 anni, quell’intuizione collettiva è diventata una certezza: Joker e Gotham City sono diventate le metafore cinematografiche più gettonate.
Il mondo dei Cinecomic è ormai entrato nelle nostre vite a tal punto da far dire al capo della Polizia che la capitale «non è Gotham City», riferendosi ai numerosi fatti di cronaca nera avvenuti negli ultimi mesi. La metafora scelta da Franco Gabrielli non è il Far West con i suoi pistoleri, né Chicago con i suoi omicidi: è la città immaginaria per eccellenza, creata nel 1939 da due disegnatori statunitensi.
Come ultima dimostrazione dell’importanza acquisita in Italia dai Cinecomic e dall’universo dei supereroi, c’è l’hype incontenibile che si è diffuso prima dell’uscita nelle sale del Joker di Todd Phillips e c’è il sovrabbondare delle recensioni sul film e dei commenti sui social network.
Ecco perché la politica, che ne ha capito la portata, ha intuito di doversene appropriare: Gotham City, e l’Universo del Cinecomic più in generale, può essere una buona sponda su cui appoggiarsi per convincere l’elettorato che le cose non vanno poi così male. Roma, d’altronde, non è Gotham City.
Da Chicago a Gotham City: l’evoluzione del luogo simbolico della violenza e del degrado
Un luogo abbandonato a sé stesso, caotico, violento. Una città degradata dalla criminalità organizzata e dalle istituzioni rassegnate, abitata da cittadini in attesa di un miracolo che li redima. C’era un tempo in cui la sintesi simbolica per tutto questo era Chicago in Illinois e cuore di Cosa Nostra in America.
La città del vento e della mafia, quella della “Chicago Outfit” di Colosimo e Al Capone, ambientazione de Gli Intoccabili di Brian De Palma. Agglomerato di ghetti, la “Chiraq” assassina piena di cicatrici, come la soprannominarono negli ambienti hip-hop, dove camminare per le sue strade è “come stare in Iraq”.
Ma i giorni di Chicago nell’immaginario universale sembrano essere finiti. Per trovare il luogo simbolico della violenza e del degrado mettete da parte il mappamondo e dimenticate i nomi dei grandi boss mafiosi della storia italo-americana: per tutto questo ormai c’è Gotham City.
Figlia di Chicago, certo, come di New York. Il luogo nato dalla fantasia di Bill Finger e Bob Kane ha preso spunto dai quartieri più difficili degli Stati Uniti per dare casa all’eroe (Batman, se ci fosse bisogno di dirlo) e al suo antagonista (Joker, se anche qui fosse necessario menzionarlo). Ha riplasmato il reale sulle pagine dei fumetti e, piano piano, l’ha scalzato nel senso comune.
A oggi, come scrive il New Yorker, nella sua ultima versione fornita da Phillips Gotham City è «the miserabilist manifesto», il manifesto di una società che vuole apparire felice anche in un contesto ostile. Una descrizione perfetta del mondo come lo conosciamo, che rende conto molto di più di quanto non potesse fare l’immaginario di Chicago del doppio livello di decadenza in cui viviamo – sia fisico che digitale.
La civiltà e la sua fine: oltre il Far West
Dall’estremo Est all’estremo Ovest: a contendersi l’immaginario apocalittico con l’estetica urbana della Costa East c’era l’Hollywood dei grandi Western. La stessa grande distribuzione cinematografica che ha consegnato alla cultura di massa Gotham City e i supereroi.
Ma il Far West è parte oramai della storia passata, come ha suggellato nel suo ultimo film da Quentin Tarantino, C’era una volta..a Hollywood. I territori di frontiera sono chiusi nel cassetto insieme ai loro pistoleri, ai nativi americani, ai banditi, agli sceriffi e ai cercatori d’oro. L’unica frontiera che resta è quella tra il reale e il supernatural.
E il grande classico di Lo chiamavano Trinità si trasforma in Lo chiamavano Jeeg Robot, titolo di uno dei migliori Cinecomic all’italiana, vincitore di 7 Davide di Donatello e 2 Nastri d’Argento. La sinossi è la sintesi perfetta: un ladruncolo qualunque di Roma cade nel Tevere radioattivo e con i superpoteri che acquisisce inizia a combattere il crimine organizzato della periferia romana. Sullo sfondo non Ennio Morricone, ma Loredana Berté e Anna Oxa.
La città-cinecomic e la deresponsabilizzazione delle Istituzioni
Poi, come per tutto, arriva l’altra faccia della medaglia. La commistione tra cinema, fumetto e realtà ha fatto tornare l’interesse critico a una generazione che sembrava dover essere eternamente distratta. Ma una rappresentazione fantastica della città – finalmente anche italiana e non solo americana – rimane pur sempre una rappresentazione fantastica della città.
E così non solo Roma non è Gotham City, ma Roma non è davvero la città di Lo chiamavano Jeeg Robot. E allora forse non è nemmeno la Roma di Suburra, di Romanzo Criminale. Sono caricature, finzioni, forzature. Qualcosa per cui andare al cinema e riflettere, sì, ma soprattutto farsi due risate nel riconoscere sul grande schermo la propria vita, il proprio dialetto e le proprie strade. Una commistione tra cronaca e intrattenimento rischiosamente sbilanciata sul secondo.
Una distorsione della realtà che serve da spunto anche ai politici e ai rappresentanti delle istituzioni. Perché dietro al «Roma non è Gotham City» del capo della polizia Franco Gabrielli e della sindaca Virginia Raggi, c’è molto di più di un semplice aggrappo simbolico. C’è un paragone (esagerato e irrealistico) su cui poggiarsi per rimanere a galla e convincersi che potrebbe andare molto peggio.
Che l’ironia sarebbe stata l’ultimo colpo di coda della civiltà lo avevano detto anche due fini conoscitori del postmoderno, quali Umberto Eco e David Foster Wallace. Da questo punto di vista, lo scenario della città-cinecomic ha dell’apocalittico molto di più di quanto non ce l’abbia un racconto ambientato a Chicago o una pellicola girata nel lontano West.
«Alla Raggi puoi dare anche la mantella di Batman, il problema è che non è capace», ha detto Matteo Salvini di fronte alla proposta della sindaca di dare poteri speciali alla Capitale. E poi, sotto i baffi, ha riso.