«Unbelievable»: la serie Netflix che racconta cosa succede quando è il sistema a violentarti
Il 13 settembre ha fatto il suo debutto su Netflix Unbelievable, la serie crime basata su una storia vera raccontata in un articolo scritto nel 2015 da T. Christian Miller e Ken Armstrong e pubblicato da Pro Publica e The Marshall Project, che è valso agli autori il premio Pulitzer nel 2016.
Una serie che nel giro di poche settimane, grazie al passa parola è diventata un vero è proprio fenomeno cult per il pubblico femminile, tanto che Vulture l’ha definito il crime drama più femminista mai visto a Hollywood.
La storia, sviluppata su due narrative differenti ma parallele, racconta cosa succede quando una vittima di stupro viene abbandonata dal sistema. È il caso della protagonista Marie Adler, 18 anni, che viene abusata sessualmente da uno sconosciuto che fa irruzione nella sua casa e la stupra nel suo letto. Una storia comune raccontata in molti crime drama ma che in Unbelievable assume contorni diversi. La prospettiva non è più quella dell’assalitore, ma diventa quella della vittima.
Due indagini: due visioni diverse
La storia di Marie, interpretata da Kaitlyn Dever, si intreccia con l’indagine di altre due donne, le detective Rasmussen e Duvall, che indagano su una serie di stupri avvenuti in Colorado tre anni dopo.
Ed è in questa narrazione a specchio che Unbelievable riscrive il topos di genere dei crime drama. Marie Adler denuncia lo stupro, ma i detective non le credono. Dopo aver constatato vari buchi nella sua testimonianza Marie è costretta a ritrattare la sua testimonianza tanto che i detective la spingono a dichiarare di essersi inventata tutto. Una doppia violenza per Marie che viene rinnegata dalla giustizia interpretata da due detective che non solo falliscono negli elementi procedurali, ma che sbagliano anche dal punto di vista umano.
A Marie viene chiesto di ripercorrere più e più volte la storia del suo attacco, senza alcun segno di empatia, finché i poliziotti, avvicinati dalla madre adottiva, che fa luce sul passato turbolento e difficile della 18enne, si convincono che Marie volesse solo attirare l’attenzione.
Believable: quando la vittima viene ascoltata
Ed è qui che la narrazione si capovolge e accelera. Tre anni più tardi, nel 2011, le detective interpretate da Merritt Wever e Toni Collette, si mettono a investigare su una serie di stupri avvenuti in Colorado e decidono di lavorare in maniera congiunta per mettersi sulle traccia di uno stupratore seriale che agisce esattamente come descritto nello stupro di Marie Adler.
La stacco è evidente e viscerale. La vittima di cui si occupa Duvall, Amber, viene trattata come mai si sente parlare. Già privata della sua sicurezza e con una cicatrice indelebile nel suo animo viene portata in uno spazio appartato dove possa confidarsi, lontano dagli interrogatori martellanti dei detective uomini, come era stato il caso di Marie.
La detective si dimostra gentile e professionale, accompagnando la vittima in ogni passo dell’indagine: dall’ospedale, dove si sottoporrà al kit per lo stupro per raccogliere prove, alla casa dell’amica dove la detective la accompagna per rifugiarsi.
Due modi diversi di fare lo stesso mestiere, di soccorrere una vittima di stupro e un messaggio chiaro: immagina se ogni persona aggredita fosse trattata nello stesso modo. Più che un faro sulla necessità di una visione femminile, la serie fa luce sulla frequente incompetenza e mancanza di addestramento di chi ha a che fare con vittime di stupro: dai detective alle infermiere in ospedale.
Uno sguardo competente
L’esperienza conta e lo sguardo femminile delle detective è quello di chi sa cosa vuol dire l’oggettivazione del corpo femminile, cosa vuol dire subire molestie o peggio ancora essere abusate sessualmente.
I due detective uomini si trovano impreparati di fronte alla sofferenza delle ragazze, non perché siano dalla parte sbagliata, ma perché non sono pronti per capire fino in fondo la vittima, addestrati da un sistema ancora incapace a fare i conti con uno dei mali della nostra società.
Il punto di vista della vittima è reiterato anche dalla scelta della regista di non mostrare l’atto della violenza attraverso gli occhi dello stupratore ma attraverso la visione delle vittime. La regista Susannah Grant ha raccontato a Vulture che ha deciso di evitare che le sequenze di stupro potessero essere associate al rape porn, già troppo presente nella nostra società per Grant.
La duplicità dei comportamenti, quelli delle detective e dei colleghi maschi, è data anche dallo sdoppiarsi temporale della narrazione. Mentre Marie soffre per le conseguenze di un sistema che non le ha creduto, a migliaia di chilometri di distanza, tre anni dopo, una coppia di agenti instancabili sta venendo a capo della tragedia che l’aveva colpita in prima persona anni prima.
C’è ancora speranza?
Alla fine questo gomitolo aggrovigliato di intrecci e vicende personali viene liberato e le due storie si incontrano. Anche Marie è libera, libera di credere finalmente dopo anni passati nel buio che sì, le persone continueranno a farsi sempre cose terribili l’una all’altra, ma che c’è uno spiraglio di speranza: nella competenza, nella determinazione e nella volontà di ascoltare, senza prepotenza così come scandito alla fine da Marie al detective che non l’aveva creduta: «La prossima volta. Fai meglio».
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