«In 2 anni l’Italia ha dato 150 milioni alla Libia». Cosa dice il memorandum punto per punto
150 milioni. Circa 43,5 milioni nel 2017, più di 51 nel 2018 e oltre 56 nel 2019. Sono queste la cifre che l’Italia ha speso in poco più di due anni per aiutare la Libia a gestire, in totale autonomia, la situazione dei migranti e dei rifugiati. Una somma di denaro che è servita a finanziare i centri di detenzione e l’operato della guardia costiera libica, due enti attualmente indagati dal Tribunale dell’Aia per violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità.
A riportare i dati è l’ong Oxfam, che è tornata a fare un appello alle autorità italiane per annullare gli accordi siglati nel 2017 e che verranno automaticamente rinnovati il 2 novembre. «Ignorando le condizioni disumane dei migranti in Libia – scrivono – i governi italiani hanno continuato a finanziare interventi come la formazione di personale locale nei centri di detenzione ufficiali o la fornitura di mezzi terresti e navali alla Guardia costiera e alle autorità libiche».
Le istituzioni libiche, che versano in condizioni critiche da mesi a causa della guerra civile, hanno iniziato a chiudere i centri dopo i bombardamenti dei mesi scorsi (da ultimo quello di Misurata) senza che però siano partiti dei piani umanitari in grado di aiutare i migranti e i rifugiati che in quei «lager» di «inimmaginabili orrori» vivevano.
Chi non è partito per il mare (rischiando di morire o di essere riportato indietro dalle autorità libiche), ha trovato rifugio in strutture ugualmente disumane e ugualmente a rischio bombardamenti, come testimoniato dalle Ong presenti sul posto.
La posizione dell’Italia rispetto agli abusi umanitari della Libia si fa sempre più ambigua, anche a seguito dell’inchiesta del giornalista Nello Scavo – ora sotto scorta per le minacce ricevute – sugli incontri delle istituzioni italiane con Abd al-Rahman Milad , detto “Bija”, noto trafficante di esseri umani tra i vertici della Guardia costiera libica. In quelle occasioni, le autorità italiane avevano trattato con Bija per bloccare le partenze verso l’Italia.
La mattina del 30 ottobre, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha spiegato che sul memorandum «decide il governo». Durante il question time alla Camera, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affermato di «star lavorando per modificarlo in meglio, in particolare nella parte riguardante le condizioni dei Centri di detenzione», ma che «sospenderlo sarebbe dannoso».
L’esecutivo italiano vorrebbe rafforzare il ruolo delle ong sul campo, proprio dal punto di vista dei progetti umanitari alternativi alla detenzione. Una modifica degli accordi che, per essere valida, dovrà essere approvata anche dal governo della Libia, che non ha intenzione di cambiare la linea anti-ong tenuta in tutti questi anni. Come emerso da un decreto presidenziale emesso il 14 settembre, a ogni Ong è richiesto «di presentare una preventiva domanda di autorizzazione alle autorità libiche» per entrare nei loro territori.
Quando è nato il Memorandum
Firmato nel 2017 dall’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal primo ministro del governo di riconciliazione nazionale libico Fayez al-Serraj, il memorandum nacque per disciplinare ufficialmente «la cooperazione nel campo dello sviluppo», «il contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando» e «il rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana».
Fermamente voluto dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, l’accordo bilaterale non ha contribuito a migliorare le condizione dei migranti e dei rifugiati bloccati sulle coste libiche. L’unica struttura che non è sotto controllo delle autorità locali è il Centro di Raccolta e Partenza a Tripoli, gestita dall’Onu. Al momento però, come fanno sapere dall’Unhcr, il centro è saturo, e l’ong non è più in grado di accogliere persone vulnerabili.
Le autorità marittime libiche, inoltre, sono state accusate dalle organizzazioni internazionali di riportare nei centri di detenzione i migranti e i rifugiati recuperati nelle barche in mezzo al Mediterraneo, oltre che di vendere all’asta come schiavi molti di loro.
I finanziamenti italiani e l’autonomia della Libia
I finanziamenti e il sostegno ai «programmi» contro l’immigrazione illegale, alla «guardia di frontiera» e alla «guardia costiera libica» costituiscono il primo articolo del memorandum. Di base, l’Italia riconosce alle autorità libiche il potere di soccorrere e accogliere i migranti nel proprio territorio.
Una delle questioni principali è l’autonomia lasciata alle autorità libiche per gestire la causa – sancita indirettamente anche dall’articolo 7, che non riconosce pene o sanzioni per controversie in merito «all’interpretazione» dei criteri di gestione.
La creazione e la gestione dei centri è affidata esclusivamente alla Libia, ma a seguito delle verifiche dell’Onu, delle indagini del Tribunale dell’Aia, delle testimonianze di Medici Senza Frontiera e delle altre ong, lasciare le cose come stanno non garantirebbe il rispetto dei diritti dell’essere umano.
Nel secondo articolo, l’Italia specifica di impegnarsi anche a finanziare i «centri di accoglienza» già attivi, fornendo medicinali e attrezzature mediche per il trattamento delle malattie «trasmissibili e croniche gravi» dei così definiti «migranti illegali».
Non solo: di competenza dell’Italia è anche la formazione del personale libico all’interno dei centri, attraverso il finanziamento di centri di ricerca libici che operano in quel settore. Una formazione non diretta, quindi, ma garantita esclusivamente dall’invio di denaro autonomamente gestito dalle autorità locali.
L’articolo 4 specifica che l’Italia può avvalersi anche di fondi «disponibili dall’Unione Europea», nel «rispetto delle leggi in vigore nei due Paesi».
Condizioni dell’accordo e sue modifiche
Dal 2017 a oggi, le condizioni di stesura degli accordi sono cambiate notevolmente. La Libia è attualmente riconosciuta come Paese in guerra, e, come constatato anche dall’Onu e dalla Commissione europea, le sue sponde non possono più essere considerate un porto sicuro. Questo, unito alle scoperte in merito agli abusi dei centri e delle autorità libiche, ha fatto sorgere la necessità di pensare, se non alla sua abolizione, quantomeno alla rettifica di alcuni punti del memorandum.
Le modifiche sono consentite dagli accordi stessi: stando all’articolo 7, l’intesa può essere cambiata «a richiesta di una delle Parti, con uno scambio di note» tra i Paesi.
L’articolo 8 e il tacito rinnovo
Arriva infine l’Articolo 8. Il 2 novembre, tre mesi prima della scadenza e in assenza di diverse indicazioni, il Memorandum of understanding si «rinnoverà tacitamente» per altri tre anni. Un epilogo che rischiava di passare sottobanco se giornalisti, ong e associazioni non avessero fatto pressioni sul governo per chiarificazioni in merito al futuro degli accordi.
A schierarsi contro il rinnovo sono stati anche diversi parlamentari di maggioranza, appartenenti ai gruppi del Pd e di Leu. Tra chi ha fatto più rumore c’è stato l’ex presidente dem Matteo Orfini, che dopo il tragico naufragio avvenuto nella notte tra il 7 e l’8 ottobre aveva accusato il proprio partito di essere complice.
Recentemente ha twittato: «Dire che si vogliono cambiare gli accordi con la Libia e poi rinnovarli è una pagliacciata. Indignarsi per la violazione dei diritti umani e poi confermare un memorandum che serve a finanziare i lager è una squallida ipocrisia. Abbiamo ancora 2 giorni per fermare questa follia».
Dire che si vogliono cambiare gli accordi con la Libia e poi rinnovarli è una pagliacciata.
— orfini (@orfini) October 30, 2019
Indignarsi per la violazione dei diritti umani e poi confermare un memorandum che serve a finanziare i lager è una squallida ipocrisia. Abbiamo ancora 2 giorni per fermare questa follia.
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