Migrazioni, clima, Europa: di cosa parla «Il mondo che vogliamo», il libro di Carola Rackete
Un viso serio e tranquillo, capelli biondi intrecciati in lunghi dreadlock. Maglia nera aderente al corpo, al collo un ciondolo a forma di sole con 7 raggi intatti. Abbiamo imparato a conoscerla così Carola Rackete, capitana alla guida della Sea Watch 3, nei momenti precedenti all’entrata in acque italiane della sua nave. Diventata famosa in tutto il mondo per aver sfidato a viso aperto Matteo Salvini, capofila della politica dei porti chiusi nell’epoca delle migrazioni nel Mediterraneo, e per aver portato sulle rive di Lampedusa 42 persone salvate in mezzo al mare.
Del nome di Salvini, allora a capo del Viminale, non c’è traccia nelle 148 pagine del suo libro, uscito in Italia oggi 4 novembre con il titolo Il mondo che vogliamo. Appello all’ultima generazione (Garzanti). Un libro che inevitabilmente prende spunto e si sviluppa attorno alla sua esperienza con la ong tedesca e al suo successivo arresto in Sicilia. Due episodi che l’hanno portata sulle prime pagine di tutti i giornali più per il fatto di essere una «giovane donna» che per l’emergenza umanitaria di cui si stava occupando.
Una lettura che non è piaciuta all’attivista tedesca, ingegnere nautica ed ex ricercatrice scientifica, che di quei giorni ha voluto parlare diversamente attraverso un racconto in prima persona. Una ricostruzione mirata a contestualizzare l’episodio della Sea Watch 3 in un contesto più ampio di migrazioni e di diritti volontariamente ignorati.
Quali? Quelli umani in primis, di chi rischia di affogare durante la tratta dalla Libia o dalla Tunisia in barche non attrezzate per viaggi del genere. Ma anche di diritti europei fondati sul principio ella solidarietà tra Paesi membri. «Il terzo trattato di Dublino fa ricadere tutto il peso delle migrazioni sull’Europa meridionale», scrive, sottolineando come l’Italia, Malta e la Grecia siano state lasciate sole dall’Ue nella gestione delle migrazioni e dei suoi costi. La missione Mare Nostrum, avviata a seguito di due grandi naufragi nell’ottobre del 2013, costò all’Italia 9 milioni al mese. L’Europa contribuì con solo 1,8 milioni di fondi.
Quale mondo? Di chi?
Il «mondo che vogliamo», titola il libro. Sì, ma il mondo che vuole chi? Chi, come lei, studia le cause gli effetti dell’emergenza climatica, e che li affronta sia dal punto di vista delle conseguenze ambientali che dai risvolti sociali. Le migrazioni sono una di queste: milioni di persone stanno fuggendo da territori inagibili da diversi punti di vista (politico, territoriale, umanitario), resi tali da un sistema macro-economico predatorio e corrosivo.
«L’egemonia economica prosegue»: le monoculture intensive inaridiscono i terreni, li sottraggono alle popolazioni locali e minacciano la biodiversità. I pesticidi contribuiscono alla desertificazione, e la distruzione delle foreste «provoca la fuga dei popoli indigeni». «L’avidità di benessere e crescita economica costante», scrive Rackete nel suo libro, «ha da tempo spinto le nazioni industrializzate a sfruttare i Paesi e le persone delle regioni più povere del mondo».
Rackete invoca un mondo senza diseguaglianze, un mondo che rispetti la sua casa e i suoi abitanti. Ed è lo stesso appello formulato dalle generazioni più giovani attraverso i movimenti globali del Fridays For Future, di Extinction Rebellion, di Non una di meno. Perché quello di cui parla la ex Capitana della Sea Watch3 nel suo libro non è diverso da quello di cui discute Greta Thunberg nelle piazze e nei palcoscenici delle Istituzioni europee. Senza farlo, mai una volta, per «futile spirito avventuroso».
«Io non dovrei essere qui», scrive, raccontando al presente l’esperienza sulla nave dell’Ong tedesca. Un’espressione che ricorda quella di Greta a New York durante il Summit sul cambiamento climatico del settembre scorso: «Io non dovrei essere qui, dovrei essere a scuola». Ma ci sono, perché lì «non c’era nessuno altro».
Le migrazioni, la povertà e l’emergenza climatica non sono cose separate
A Carola Rackete i compromessi non piacciono. Non prende l’aereo e pretende che chiunque voglia incontrarla da altre parti del mondo faccia lo stesso. A costo di avere problemi con la giustizia, Rackete ha scelto di portare sulle rive italiane le 42 persone a bordo della nave, perché «era la cosa giusta da fare» e perché «lo imponeva il diritto internazionale».
I compromessi non le piacciono nemmeno quando c’è da raccontare le cose come stanno dal punto di vista politico. Puntando il dito contro i «governanti così generosi da affermare che bisogna combattere le cause della migrazione», Carola mette in relazione le migrazioni del mondo, l’aumento della povertà e la crescente e preoccupante crisi ambientale: «Fino a quando questo sistema economico continuerà a produrre una diseguaglianza sociale così profonda e la natura sarà sfruttata in ogni angolo del pianeta, le persone affideranno le loro vite a barche sulle quali nessuno sceglierebbe mai di viaggiare».
Per Carola non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che le persone vadano salvate. Soprattutto, se a creare le condizioni del loro fuggire e del loro rischiare sono coloro che poi gli negano gli aiuti. «Il fatto che nel 2019 in Europa si arresti qualcuno che ha salvato vite umane è inquietante», scrive. «Tutto questo dimostra che nell’Ue i diritti umani non valgono per tutti».
Le cause di questo «sradicamento» di intere famiglie o, addirittura, popolazioni, sono destinate a moltiplicarsi nel corso degli anni: i disastri ambientali, che solo nei primi mesi del 2019 hanno provocato lo spostamento di oltre 7 milioni di persone, verranno inaspriti dall’avvelenamento industriale delle acque, dalla salinizzazione dei terreni agricoli e dalle conseguenti siccità. Crescerà la povertà: ma mentre i migranti economici esistono, i rifugiati climatici non sono ancora stati ufficializzati dalla Convenzione di Ginevra.
«L’ultima generazione»: una questione di sopravvivenza
«È giunto il momento che tutti capiscano qual è realmente il punto della crisi climatica e del collasso degli ecosistemi: la sopravvivenza», scrive Carola. Parte del suo libro è dedicata al racconto delle sue spedizioni nell’Artico, dove ha visto con i propri occhi lo sciogliersi impietoso dei ghiacciai. Non si tratta di cambiamento climatico, dice, ma di una vera e propria «catastrofe» che ha a che fare con la nostra sopravvivenza sul pianeta.
Solo la paura ci salverà, scrive, quella provocata dal rendersi conto della gravità della situazione. Anche qui, inevitabilmente, torna alla mente una delle frasi più celebri di Greta, pronunciata lo scorso gennaio al World Economic Forum di Davos: «Non voglio tranquillizzarvi, voglio che andiate nel panico».
«Siamo ancora in tempo per limitare il riscaldamento globale di 2 gradi», dice, ma sa che la sfida è grande e che bisogna prepararsi all’ipotesi che «non ce la faremo». Non ce la faremo se la catastrofe climatica continuerà a rimanere fuori dalle priorità di chi prende decisioni importanti.
Perché la salvaguardia del pianeta è prima di tutto una questione politica: «Il problema non è l’aumento della popolazione mondiale, ma il consumo di risorse da parte dei paesi ricchi. Non siamo troppi: c’è solo una minoranza che consuma troppo». La quantità delle persone coinvolte può essere, anzi, parte della soluzione: «Dobbiamo essere molti. E dobbiamo unire le forze».
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