Ce u firr a fategà
Ce u firr a fategà, cu a cape la penzà
Vincenzo Capozza
cu na call u riisce a mudellà
Ce u stinn fasce nu spide, ce l’allarghe fasce na palett
i cu martid’ a bbat accumm a na saètt
ca na volt ch’è chietrate
i’notele c’abbaatt, sop a’ngodn u firr viene sckattate
A perdersi tra Noci e Putignano, in terre pugliesi abitate da 2600 anni, si finisce per incontrare una casa con le imposte di ferro, al civico 5 della Strada Comunale Purgatorio. C’è un giardino straripante di gatti e gattini, delle scale per guardare i tramonti dal tetto, ma specialmente un’officina.
Nell’officina ci stanno Vito e Vincenzo, figlio e padre, mastri ferrai. Lavorare il ferro è arte antichissima, l’incudine una forma antropologica. Per Cenzino e Vito è una cornucopia di metallo plasmato, capace di produrre qualsiasi cosa, un chiodo come una rosa, o un pegaso.
I Capozza non limitano l’incudine al suo utilizzo pratico, e per questo chiamarli fabbri è parziale, ma la usano come mezzo di espressione totale, di relazione alla vita: ci creano opere d’arte, ci vincono competizioni internazionali, ci sperimentano, ci scherzano, ci giocano – la condividono.
Vito dal padre non ha ereditato solo il martello, ma i motivi e le libertà dello strumento. Vincenzo non è nato fabbro; è un mestiere di cui si è innamorato giovanissimo, ma rimane forse l’unica cosa che lo separa dal figlio, classe ’88, i cui primi ricordi già lo collocano in officina, ad ascoltare il rumore del ferro incandescente sibilante nell’acqua. Vincenzo ha sempre avuto pochi macchinari; non per luddismo, ma perché li considera restrittivi ed omogeneizzanti rispetto alle potenzialità della materia.
Vito cresce, già consapevole di essere fabbro, ed è per questo che decide di frequentare il Liceo Artistico di Monopoli: vuole integrare l’officina con strumenti nuovi. Nel 2010 fonda I Capozza: si occupa di lavorazione artistica del ferro, realizzando opere su committenza, sculture, arredi, e la gran parte delle cose che ha voglia o bisogno di fare.
Vito parte da un disegno, su carta o direttamente sul piano di lavoro: è il primo passo della trasmutazione di un blocco di ferro, ed è la quiete prima della tempesta. Quello di Vito è un rito alchemico e violento, che tramortisce con i suoi estremi – la nota alta del martello sull’incudine, la luce invitante dell’incandescenza, il caldo intenso nonostante l’autunno in aperta campagna.
Tutto questo avviene davanti a Vincenzo, col suo aiuto solo nelle rare volte in cui è necessario (il padre è stato segnato dal mestiere e deve riposarsi). Lo sguardo di Vincenzo non è quello di un osservatore, però. È identico a quello del figlio che lavora: rapito e lontano, una martellata avanti alla forma del metallo. Per Vito fare il fabbro è naturale e profondo quanto essere figlio di Vincenzo; l’incudine uno dei modi di esprimerlo, il migliore.
Il lavoro di Vito è stato messo in musica da Matilde Davoli, compositrice e producer a cavallo tra Lecce e Londra. È fondatrice del progetto musicale Girl With the Gun, che gestisce con l’amico artista Populus, e dell’art label Loyal To Your Dreams. La sua traccia, The Blacksmith’s Hammer, è disponibile in free download e per l’ascolto su Bandcamp. L’utilizzo del brano è libero, con la condivisione della fonte: www.open.online
Autore: Henry Albert
Producer: Francesca Simili
Regia: Gianvito Cofano
Fotografia: Niccolò Natali