Di cosa parliamo quando si tratta di chiusura dell’Ilva: cosa c’è in ballo dietro la rottura con ArcelorMittal
Alla fine la mossa dell’ArcelorMittal è arrivata: la multinazionale franco-indiana, che il primo novembre 2018 ha preso in affitto i rami d’azienda dell’Ilva di Taranto, ha comunicato di volersi disimpegnare dalla gestione della struttura.
Le motivazioni sono chiare. Da una parte c’è la crisi del mercato siderurgico, che interessa non solo l’Italia ma l’Europa intera. Dall’altra, fattore più incisivo per quanto riguarda le mosse dell’azienda sul territorio italiano, c’è stata l’abolizione dello scudo penale, introdotto con una legge del 2015 e revocato con l’approvazione del decreto Salva Imprese nel settembre di quest’anno.
L’immunità permetteva all’azienda di non incorrere in sanzioni penali nel periodo di riconversione dell’impianto secondo il Piano ambientale. Nel contratto firmato dall’ArcelorMittal, veniva messo nero su bianco che in caso in cui «un nuovo provvedimento legislativo incidesse sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso contratto».
A partire dal 3 novembre 2019, con l’approvazione della nuova legge, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale: una condizione che basta, secondo l’Arcelor Mittal, a comunicare l’intenzione di rescindere l’accordo per l’affitto.
Non appena la nota della volontà dell’azienda è stata diffusa, il governo ha organizzato un tavolo d’emergenza per discutere sulle future mosse. «Non esistono le condizioni per la chiusura», ribattono ministri presenti al tavolo. «Il governo non lo permetterà», hanno detto.
E mentre si parla di una convocazione dei vertici dell’azienda a Palazzo Chigi con il premier Conte, l’amministratrice delegata dell’ArcelorMittal Italia Lucia Morselli ha già comunicato le future disposizioni ai suoi dipendenti: «Sarà necessario attuare da subito un piano di ordinata sospensione di tutte le attività produttive», ha scritto. A cominciare dall’area a caldo dello stabilimento di Taranto, «che è la più esposta ai rischi derivanti dall’assenza di protezioni legali».
I numeri dei dipendenti: quasi 10mila lavoratori scoperti
La notizia dell’interruzione delle attività dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto non scontenta tutti. Da anni i residenti lottano contro gli esagerati livelli d’inquinamento nell’area, provocati proprio da una produzione industriale non allineata con i parametri della sostenibilità ambientale.
Dall’altra, come spesso accade in Italia, la risoluzione della catastrofe ecologica non va di pari passo con la risoluzione della crisi del lavoro. E oltre ad essere, secondo molti, un cattivo messaggio per gli investitori stranieri che vogliono avviare un’attività nel nostro territorio, esiste la questione appesa dei lavoratori ex Ilva e ArcelorMittal.
Attualmente, sono 10.700 i dipendenti che la multinazionale francoindiana ha assunto in tutta Italia a partire dall’inizio della sua attività in Italia lo scorso anno. Di questi, 8.200 sono dipendenti diretti operanti nelle strutture di Taranto.
Dal 30 settembre scorso, 1.276 dipendenti sono in cassa integrazione ordinaria per crisi di mercato, e ci resteranno, come da comunicato, per 13 settimane. Non è stata questa la prima fase di cassa integrazione: prima di settembre, ce n’era stata un’altra (sempre di 13 settimane), partita dal 2 luglio e rivolta a 1.395 addetti.
Prima del subentro di ArcelorMittal, lo stabilimento di Taranto contava in tutto 10.300 dipendenti. A parte gli 8.200 assunti dalla multinazionale, gli altri sono rimasti in Ilva in amministrazione straordinaria, ancora proprietaria degli impianti (ArcelorMittal è in affitto). Questi altri 2.600 dipendenti si sono ridotti a circa 1.700, perché una parte ha interrotto il rapporto di lavoro con Ilva accettando l’esodo agevolato e incentivato che era previsto dal contratto firmato con i sindacati. I cassintegrati rimasti, stanno al momento frequentando corsi di formazione professionale.
Quanto vale l’indotto di Taranto
A Taranto l’indotto di ArcelorMittal vale circa 3.000-3.500 dipendenti, che si occupano di lavori, di rifacimenti impianti, di manutenzioni, di servizi e di pulizie industriali e civili. Per una parte di queste aziende – quelle delle pulizie – ArcelorMittal ha avviato nelle scorse settimane una revisione dei contratti con un sensibile taglio dei costi.
Non tutte le aziende hanno però accettato le nuove condizioni: al momento ci sono circa 200 addetti dell’azienda di pulizie industriali Castiglia che non hanno ritrovato ricollocazione nelle nuove imprese subentranti. L’indotto sta vivendo una situazione di difficoltà importante, perché sperava che con Arcelor Mittal si sarebbero aperte delle opportunità di lavoro con gli investimenti industriali e ambientali annunciati dalla multinazionale, pari a poco più di 2 miliardi complessivi. Opportunità che ora stanno sfumando.
A questo si aggiunge che molte imprese devono ancora ricevere i crediti riferiti al periodo pre-amministrazione straordinaria di Ilva, scattata a gennaio 2015. Crediti finiti nella procedura che ora è in capo al Tribunale di Milano, sezione fallimentare.
I numeri della produzione: un obiettivo sfumato
6 milioni di tonnellate di acciaio: è questo il livello che la ArcelorMittal contava di produrre nel 2019 – che è il livello autorizzato dall’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) fino al compimento delle prescrizioni ambientali in scadenza nell’agosto 2023.
A maggio scorso, però, l’azienda, a fronte della crisi di mercato, ha dichiarato che l’obiettivo di 6 milioni sarebbe slittato al 2020, e che per quest’anno si sarebbero attestati su 5 milioni, dato anche lo stato non propriamente efficiente degli impianti e la necessità di fare manutenzioni.
A complicare le cose c’è stato l’annuncio a giugno della cassa integrazione di 1.395 lavoratori. In più, dopo la tragica morte del gruista Cosimo Massaro colpito da una tromba d’aria e precipitato in mare durante il suo turno di lavoro, è scattato il sequestro di uno degli sporgenti portuali adibiti allo scarico delle materie prime. L’interruzione ha reso problematico il rifornimento di coke e di minerali, materiali che alimentano gli altiforni.
Le cifre dell’affitto
Da novembre 2018, ArcelorMittal versa all’amministrazione straordinaria un canone d’affitto con rate trimestrali di 45 milioni (per 6 tranche lungo 18 mesi), da detrarsi poi dal prezzo di acquisto dell’azienda, fissato nel contratto di giugno 2017.
Leggi anche:
- Salvini su ArcelorMittal: «Se saltano posti di lavoro, governo si dimetta». Dribbling sul caso Balotelli: «Vale più un operaio dell’Ilva di lui»
- Nadia Toffa, il murale a Taranto: il suo sorriso nella città che l’aveva adottata – Foto
- Sono 160 le crisi aziendali in attesa di soluzione (e del nuovo governo): da Alitalia a Whirlpool, da Blutec all’ex Ilva
- Ex-Ilva, sindacati delusi dal vertice con Di Maio e azienda. A Taranto, la procura spegne un altoforno
- Ilva, Conte rassicura dopo lo strappo di ArcelorMittal: perché lo scudo penale non può essere un alibi per l’azienda