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ArcelorMittal, Taranto chiama Conte: «Il governo venga qui all’ex Ilva»

08 Novembre 2019 - 06:40 Angela Gennaro
L'associazionismo tarantino porta avanti da anni una proposta di riconversione. Giordano, 24 anni: «Immagino una città senza Ilva, che riparta dalla cultura»

Taranto tra dieci anni? «Me la immagino senza Ilva. Una città che possa risorgere dalla sua storia, con un polo universitario indipendente. Una città che possa tornare a essere quello che è già stata: dalla capitale della Magna Grecia a quella della cultura oggi. Per tutto il bene che abbiamo».

Giordano ha 24 anni e lavora come barman. Come altri, è in presidio in questi giorni davanti alla direzione dell’ex Ilva. «Come libero cittadino, per farci sentire». Non sono molti i suoi coetanei scesi in strada a manifestare, dice. «Poche persone stanno percependo realmente il problema», racconta Giordano a Open.

Perché? «Sicuramente uno dei fattori che pesa di più è quello dell’emigrazione studentesca e lavorativa. I giovani sono costretti a emigrare per studiare e lavorare, quindi non rimane fondamentalmente nessuno che possa curare momenti di aggregazione e confronto», dice Giordano.

E chi resta? «Non c’è una generazione che realmente percepisce quali possano essere i risvolti sociali di quello che stiamo vivendo. Mancando le occasioni di aggregazione, spesso altrove mosse da mobilitazioni studentesche. Quindi manca la possibilità di sensibilizzazione».

Come vive un ragazzo di 24 anni quello che sta accadendo a Taranto? «Sulle reti nazionali si parla sempre e solo di Pil e di guadagno. Non si stanno minimamente menzionando le lotte ambientaliste che vanno avanti da anni qui a Taranto e che invece sono il vero fulcro del discorso», prosegue il ragazzo. «Non si parla del vero motivo per cui l’Ilva deve chiudere: non perché non produce, ma perché uccide».

La via tarantina all’ambientalismo

Una proposta, dall’associazionismo della città, è arrivata da tempo, prosegue Giordano. E da quella bisognerebbe ripartire: è il piano Taranto, «un documento contenente le linee guida per la riconversione economica e sociale del territorio in ottica di chiusura e alternativa radicale alle industrie invasive che attualmente vi insistono e che sono portatrici di inquinamento e morte, oltre che di depressione economica ed etica». «Scritto benissimo: per una volta non ci si limita alla protesta, ma si propone un’alternativa concreta», dice ancora il 24enne.

Taranto chiama Conte

Prima di ascoltare Mittal, il premier Giuseppe Conte «scendesse a Taranto. Lo invitiamo qui. A trattare con le associazioni. Non ad ascoltare, ma a trattare, e a farsi carico del piano di riconversione». Simona Fersini è la presidente del comitato Liberi e Pensanti, tra le associazioni che lavorano, da anni, a quel piano. «Invitiamo Conte a farsi un giro all’Ilva. Ma non accompagnato dai commissari o da Mittal, non a fare un giro turistico dove si stende il tappeto rosso sotto cui viene nascosta tutta la polvere. Venisse qui a visitare l’ex Ilva accompagnato dai nostri operai, che la conoscono come le loro tasche». Di più: «Tutto il governo dovrebbe venire qui».

L’accusa alla politica è chiara: «Pensiamo che l’esecutivo, ancora una volta, si calerà le braghe davanti ad Arcelor-Mittal, tuona Simona. «Chiedono 5mila esuberi: magari si metteranno d’accordo su un altro numero, ma sempre di esuberi si tratterà. Tutti sapevano chi fosse Mittal: lo sapeva il governo Renzi, lo sapeva Calenda, lo sapeva Di Maio. Noto è anche cosa combinasse Mittal al di fuori dell’Italia. E che l’obiettivo fosse quello di eliminare un competitor – i Riva, ndr – e di prendersi le quote di mercato era cosa altrettanto nota».

La facciata della direzione dello stabilimento siderurgico di Taranto, 8 novembre 2018. ANSA

Ora forse, prosegue la presidente del Comitato, «qualcuno capirà che l’Ilva non è risanabile. Non è possibile che venga messa a norma. Non è fattibile: anche lo fosse, il costo per la messa a norma è insostenibile», dice Simona. «Facciamo prima a chiuderla, usare quei soldi con gli operai per fare prima di tutto lo smantellamento, poi la decontaminazione e poi le bonifiche. Avremmo a Taranto manodopera così altamente specializzata che potremmo attuare un piano di bonifiche mai esistito. Ed è un valore aggiunto per Taranto e per l’Italia tutta: si potrebbe esportare un know how incredibile».

Il piano Taranto

Quindi come fare? Il punto di partenza del documento proposto, ormai da tempo, dalle associazioni sul territorio tarantino è «l’accordo di programma di Genova, che ha previsto la chiusura dell’area a caldo e l’utilizzo della manodopera in opere di bonifiche ma anche in lavori di pubblica utilità. Non a caso è nata la società per Cornigliano e mi risulta che sia ancora attiva», prosegue Simona Fersini.

Partendo da lì abbiamo elaborato un piano di riconversione anche utilizzando uno studio fatto da Confindustria sulle bonifiche. In quello studio si parlava delle bonifiche come del lavoro del futuro. Abbiamo anche ipotizzato dove prendere i soldi: intanto ci sono quelli risparmiati dallo sperpero che c’è stato e che c’è tuttora per mantenere un catorcio del genere. Bisogna considerare la cassa integrazione, tutti i soldi che hanno messo perché c’è ancora un debito con le banche da saldare. E poi ci sono i soldi per i fondi europei per le aree in crisi».

Insomma, per le associazioni tarantine «è un piano abbastanza dettagliato, di cittadini che non sono ingegneri e tecnici ma che è fattibile, partendo da una realtà positiva come quella di Genova».

Un piano che rilancerebbe il territorio, assicura: «Sono lavori decennali, che durano 30 anni». E poi c’è il capitolo investimenti sulla riconversione: «Se voglio puntare sulla filiera dell’agroalimentare e poi nell’arco di 20/30 chilometri non posso far pascolare niente né posso coltivare, come faccio di grazia a farla ripartire? E ancora: la filiera del mare dove la mettiamo? Nessuno si illude che Taranto possa vivere solo di turismo – e vediamo anche che tipo di turismo. Ma vogliamo ripartire dallo sfruttamento virtuoso delle risorse, tante, della nostra provincia».

A partire dalla Storia. Così, assicura, «potremmo contribuire al Pil molto più che mantenendo una fabbrica che è in perdita. Se è in perdita, scusate, in che modo contribuisce al Pil? Tutta Italia paga la cassa integrazione dell’ex Ilva. E tutta Italia sostiene i costi medici e sanitari dei tarantini costretti ad andarsi a curare altrove».

In copertina un particolare delle tute degli operai davanti alla fabbrica Arcelor Mittal a Taranto, 5 novembre 2019. ANSA/Renato Ingenito

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