La parola della settimana: «Ne**o»
Era maggio di quest’anno quando la redazione di Open, fresca del suo quinto mese di vita, si trovò a discutere su uno dei primi temi identitari che avrebbero riguardato il giornale.
Verso fine mese, durante una partita di calcio giovanile giocata vicino Sondrio, un ragazzo di 18 anni si era girato verso uno dei suoi avversari urlandogli contro alcune frasi razziste. Il giocatore era stato squalificato per 10 giornate, e noi ci preparavamo a mettere in pagina un’intervista al dirigente degli juniores.
Il pezzo si intitolava:“Negro di me*da”: insulti razzisti durante una partita di calcio under 19. Non appena pubblicato, le antenne ci si drizzarono: c’era qualcosa di profondamente sbagliato.
L’asterisco
Perché avevamo deciso di censurare il termine “merda”, tenendo invece “negro” in bella vista sull’homepage del sito? In una scala di termini da oscurare per la loro natura potenzialmente offensiva, la parola “negro” era in cima alla classifica. Sicuramente molto più in alto della parola “merda”.
La questione richiedeva una soluzione urgente, vista l’estrema attualità della faccenda. Da lì in poi, infatti, ci saremmo confrontati innumerevoli altre volte con notizie relative a episodi di intolleranza etnica. Volevamo davvero contribuire alla normalizzazione e allo sdoganamento di parole a sfondo razzista?
La risposta era facile: no. Ed è qui che arriviamo ad oggi. A proposito del più recente episodio di violenza verbale negli stadi – una madre che urla «ne**o” di m**da» dagli spalti di una partita tra Pulcini -, i media nazionali si sono riempiti di ferme condanne al gesto, affiancate da giuste esternazioni di solidarietà al bambino.
Nei titoli e nelle formule, però, la questione lessicale non sembra essere diventata ancora rilevante. Il senso comune continua a trovare più lesivo per la propria immagine mostrare in chiaro la parolaccia invece dell’insulto.
Una questione di censura?
Certo, come ogni frequentatore di neologismi sa, l’asterisco porta con sé i suoi problemi. Soprattutto se serve a nascondere una parola (diverso il discorso per l’asterisco di genere). Perché censurare sui giornali un fatto di cronaca realmente accaduto? Perché non mostrare l’atrocità in tutta la sua completezza?
Per quanto riguarda le immagini crude, esiste già una deontologia giornalistica che regolamenta quel che è opportuno mostrare e quello che no. In relazione alle parole, invece, la questione sembra essere ancora aperta – o quantomeno tollerata.
La vicenda attorno alla Commissione in Senato contro l’odio, proposta da Liliana Segre, ha restituito a sufficienza la complessità del tema. In un tempo in cui le parole, grazie ai social network, vivono e rivivono continuamente in casse di risonanza, è più facile che queste plasmino subdolamente la realtà in cui viviamo.
E se una parola offensiva viene usata e letta in continuazione sulle bacheche dei social network, è più facile che questa entri a far parte del nostro pensiero senza che la maggior parte di noi se ne renda conto (non è un caso che Facebook abbia cambiato le proprie policy sul linguaggio).
Ripulire il liguaggio
Se c’è una cosa che ha contribuito a rafforzare i movimenti Lgbtq+ nel corso degli anni, è stata la loro capacità di far proprie parole considerate offensive fino a un momento prima. Il cosiddetto “cleaning method” ha permesso a termini come “queer” di entrare nel linguaggio comune, e di de-ghettizzare le espressioni della sessualità, del desiderio e della soggettività che non rientrassero nel binarismo femmina/maschio etero.
Ma, nonostante anche il termine “nigger/nigga” sia stato ribaltato negli ambienti afroamericani dell’hip-hop – diventando una variante di “fratello”-, non è automatico che sia un bene che un “bianco” lo usi nel suo vocabolario riferendosi a persone afrodiscendenti. Lo stesso discorso vale per “bitch”: non va bene se un maschio, bianco e etero inizi a chiamare “puttanella” una ragazza, sia questa bio-femmina, trans o ragazzo gay.
Il percorso è quindi lungo, e non è detto che un termine così connotato storicamente sia possibile da ripulire. Né è detto che sia giusto farlo. Per il momento, Open ha scelto da che parte stare: da chi considera «neg*o di mer*a» un’offesa a 360 gradi.
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