Militari feriti in Iraq, torna il fantasma di Nassiriya. L’accusa del figlio di una vittima: «Si riapre una ferita. Papà non fu protetto»
«Il nuovo attentato in Iraq non può che riaprire una ferita mai rimarginata». Sono queste le parole di Marco Intravaia, figlio del brigadiere Domenico, uno dei 19 militari italiani morti nella strage di Nassiriya avvenuta il 12 novembre del 2003. Intravaia ha parlato all’indomani dell’attentato in Iraq contro le Forze speciali italiane, nel quale sono morte 5 persone.
«Per me e la mia famiglia – ha detto Intravaia – è un dolore che si rinnova ogni volta che si verificano attentati contro i nostri militari o di incidenti che li vedono coinvolti. Ieri, appresa la terribile notizia dell’attacco che ha ferito nostri cinque militari in Iraq, abbiamo seguito con apprensione e tristezza l’evolversi della situazione, minuto per minuto. Il dolore oggi è molto grande. Ai militari feriti, alle loro famiglie e a tutti i loro colleghi va la nostra affettuosa vicinanza».
A distanza di 16 anni dal tragico evento, Intravaia non nasconde l’amarezza che ancora porta con sé: «Mi fa male sapere che nessuno li ha protetti, anche se sapevano tutti, compresi i servizi segreti, che a Nassiriya era arrivata un’ingente quantità di tritolo, e che la base italiana sarebbe stata colpita di lì a poco. Ma le persone che non hanno fatto e non fanno il loro dovere non sono lo Stato. Mio padre è lo Stato».
«Tutto quello che è successo dopo – ha continuato – le verità nascoste, il tentativo di opporre il segreto di Stato (sventato all’ultimo momento avviando un procedimento legale), l’emergere delle responsabilità dei vertici militari non hanno sfilacciato l’amore, il mio amore, il nostro amore, per le istituzioni».
«Ci ha insegnato ad amare la nostra nazione e a rispettare le sue istituzioni, indipendentemente dagli uomini che le rappresentano», ha concluso Intravaia. «Resta per noi un grande uomo che, dinnanzi alla morte annunciata, con dedizione e coraggio ha onorato la divisa che indossava, donando, senza alcuna esitazione, il bene più grande: la sua vita».
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