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Libano, oltre Shatila: le ragazze palestinesi che attraverso il basket hanno abbattuto muri e confini

15 Novembre 2019 - 23:49 Cristin Cappelletti
Da Beirut a Roma. Il filo di solidarietà che grazie al progetto Basket Beats Borders ha permesso a un gruppo di profughe palestinesi di tornare a sperare

Shatila è un nome che fa rabbrividire, un campo profughi nella città di Beirut il cui destino è legato indissolubilmente a quello del suo vicino: Sabra. Sono i simboli, forse i più eloquenti, dei 15 anni di guerra civile che dal 1975 al 1990 hanno devastato il Libano, i simboli della crudeltà di un conflitto che tra il 16 e il 18 settembre del 1982 ha portato al massacro di circa 3500 persone, in maggioranza palestinesi. Tra le vittime, anche sciiti libanesi.

Una carneficina a firma dei falangisti cristiani che, agevolati dalla complicità di Israele, hanno così voluto vendicare l’omicidio del loro leader, Bashir Gemayel.

Basket senza confini

Ma oggi, in quelle strette viuzze che compongono il campo profughi nato nel 1949 per ospitare i palestinesi in fuga dall’esercito israeliano, a 37 anni da quel massacro rimasto impunito e segno indelebile della brutalità dei conflitti settari, c’è chi attraverso un campo da basket è riuscito a trovare una via d’uscita dall’oscurità di un passato non troppo lontano e da un futuro incerto.

È la Real Palestine Youth, la squadra di basket che dal 2012 ha aperto le porte a un team tutto al femminile guidato dalla volontà e dall’intuizione dell’allenatore, Majdi, palestinese cresciuto a Beirut, che ha fatto dello sport la sua missione di vita.

«Ho cominciato con mia figlia e poi sono andato a bussare a ogni porta per chiedere ai genitori di lasciare le loro figlie giocare a basket», racconta Majdi a Open.

Il campo profughi di Shatila sorge su un terreno di un chilometro quadrato. Nato inizialmente per ospitare tremila profughi, oggi al suo interno vivono circa 30mila persone.

Credits: Daniele Napolitano

Un campo affollato, dove trovare un lavoro è quasi impossibile a causa della rigida legge libanese che impedisce ai palestinesi e ai rifugiati di accedere a posizioni specializzate come medici, avvocati e insegnanti. E poi ci sono i problemi comuni, quelli di un luogo che raccoglie la disperazione di chi ha lasciato la sua terra, e si trova da un giorno all’altro incollata addosso l’etichetta di “straniero”, senza diritti, privato di tutto, o quasi.

La determinazione di Majdi

«Ho sempre visto nello sport uno strumento per cambiare, per evadere. È molto difficile, soprattutto nella società araba, abbattere i pregiudizi che circondano le ragazze», continua Majdi che rivela a Open come le preoccupazioni dei genitori fossero molte: «Molti adulti mi chiedevano perché stessi facendo questo, perché portassi al campo delle ragazze. A loro ho risposto: “Lasciatele fare, lasciatele essere loro stesse, poi decideranno”».

Le uscite al campo di QasQas, 35 minuti da Shatila, sono state una boccata di aria fresca per le 25 ragazze, dai 18 ai 20 anni, della squadra di Majdi: «Tornavano a casa più sorridenti, più energiche. E i genitori mi chiedevano: “Cosa hai fatto?”».

Ma abbattuti i confini di Shatila, di quel campo profughi angusto e stretto c’era forse la possibilità di fare di più. Ed è nel 2016 che con l’intuizione di David Ruggini, e di Daniele Bonifazi poi, che inizia a prendere forma Basket Beats Borders, un progetto per creare una rete di realtà sportive locali tra Roma e Beirut.

Un filo che nel 2017 ha portato le ragazze della Real Palestine Youth proprio nella capitale italiana dove, ospitati dagli All Reds Basket, squadra popolare di Acrobax, hanno potuto giocare a basket fuori dai confini libanesi.

Credits: Daniele Napolitano

«In un posto del genere poter fare uno sport per un gruppo di ragazze è veramente importante – commenta Daniele -. Quello che abbiamo fatto è stato permettere alle ragazze di viaggiare, e di mettersi in contatto con realtà simili alla loro, ma allo stesso tempo molto diverse».

Una campagna di raccoltà fondi che ha permesso a BBB di instaurare un rapporto duraturo con le cestiste palestinesi, che nel 2018 sono tornate a Roma per un’altra edizione della manifestazione, mentre nell’ottobre dello stesso anno sono stati gli All Reds a volare a Beirut.

«Il problema più grande è stato l’ottenimento dei visti – dice Daniele – la burocrazia è tanta». Già, perché avere questo o quel passaporto, molte volte – quasi sempre – fa la differenza, e l’Italia vive in questo senso in un limbo felice. Secondo l’index passport, il passaporto italiano è al terzo posto tra i documenti d’espatrio più “forti” al mondo: venire respinti è un’ipotesi lontana.

Dentro Shatila

Ma quando il tuo passaporto non è tra i fortunati e uscire da Beirut è un’impresa, non puoi far altro che abituarti a convivere con la quotidianità di Shatila. Discriminazione, spaccio di droga e matrimoni precoci: «Il campo è un ambiente molto stressante, ci sono alcune mancanze che sono molto pesanti da sostenere – racconta Davide che vive tutt’ora a Beirut -. L’elettricità, la condizione insalubre dei posti e degli edifici sono spesso insostenibili. C’è tutta una serie di situazioni che per loro sono normalità: come cavi elettrici sospesi o la presenza di armi».

Ed è allora che il perimetro del campo da basket diventa il trampolino per tornare a respirare, un territorio di rivalsa a pochi chilometri da Shatila: «Ho cominciato a giocare a basket quando avevo 12 anni, faccio parte della Real Palestine da 5-6 anni», è questa la testimonianza di Rola, la capitana della squadra.

«È molto importante per me giocare perché amo lo sport, mi dà molta energia e positività. Incontro molte persone di diversi Paesi e religioni», racconta Rola a Open.

Già, perché dallo scoppio della guerra in Siria nel 2012 milioni di profughi siriani si sono rifugiati nel vicino Libano, facendo diventare il Paese dei cedri il primo al mondo per numero di rifugiati in rapporto alla popolazione. Una situazione che ha cambiato anche Shatila e la Palestine Youth che ha aperto le porte anche a ragazze siriane.

Dalla Siria al Libano

«Non facciamo distinzioni di nazionalità o religione. Chiunque è il benvenuto a giocare con noi», continua Majdi. «Le difficoltà sono molte, non abbiamo lo spazio per allenarci, e in generale la vita per i palestinesi in Libano è molto dura. Ma sono molto fiero delle ragazze», dice l’allenatore.

«Grazie al nostro progetto molte giovani non vengono costrette a sposarsi o ad avere figli molto presto. È un modo per aiutare queste ragazze a emanciparsi, vogliamo essere delle guide, aiutarle a socializzare con lo sport, a farsi nuovi amici».

Credits: Daniele Napolitano

Dall’Irlanda ai Paesi Baschi, passando per l’Italia. Basket Beats Borders ha permesso alle ragazze di uscire dai confini libanesi per viaggiare in Europa e provare almeno per qualche giorno la leggerezza che dovrebbe spettare alla loro età. Ma le proteste dell’ultimo mese nalla capitale libanese hanno fatto piombare ancora una volta il Paese nel caos.

Le persone sono tornate in piazza per chiedere la fine di quel sistema confessionale dettato dagli accordi di pace di Taif, accordi che segnarono la fine del conflitto civile libanese cercando di conciliare le varie realtà di un Libano multireligioso.

Ma ora i cittadini hanno detto basta alla politica guidata da appartenenze settarie. Una protesta che anche Majdi appoggia ma che ha impattato la vita sportiva delle ragazze: «Supportiamo la protesta, ma molto spesso è difficile allenarsi perché le manifestazioni si sono spinte vicine al nostro campo».

Ad ogni modo, Majdi va avanti così come Rola, la capitana, che per il futuro afferma con forza: «Voglio diventare un’allenatrice di basket e laurearmi».

Immagine copertina credits: Daniele Napolitano

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