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Chi era Antonello Falqui, il padre del varietà italiano: come il regista raccontava il suo lavoro

16 Novembre 2019 - 12:15 Felice Florio
«Si dice che la televisione deve essere aderente alla realtà, ma il varietà è nato come uno svago, una visione, un'evasione»

Antonello Falqui, riconosciuto da tutti come uno dei più grandi registi del varietà televisivo, è morto all’età di 94 anni. «Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio – è la frase che, con la simpatia e la leggerezza che ha sempre contraddistinto il romano, è apparsa il 15 novembre sui suoi canali social -. Potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla chiesa di Sant’Eugenio a viale Belle Arti, a Roma».

Nato nel 1925, figlio del critico letterario Enrico Falqui, il regista aveva iniziato a frequentare la facoltà di Giurisprudenza. Ma non era quella la sua strada: a 22 anni lasciò l’università per iscriversi a un corso di regia di Luigi Chiarini. «Avevo capito durante il corso di regia dirà – più tardi -, che l’immagine cinematografica apriva un campo vastissimo di possibilità espressive».

Il suo primo vero lavoro fu quello di aiuto-regista per il film Cristo proibito Curzio Malaparte. Approdò in Rai nel 1952, e visse una breve parentesi milanese di un’esistenza passata nella sua Roma. Esordì nella tv lavorando ad alcuni documentari, ma conobbe la celebrità quando passò alla regia di programmi di varietà: con Il Musichiere, condotto da Mario Riva e andato in onda dal 1957 al 1960, Falqui venne riconosciuto come maestro del varietà italiano.

«Il Musichiere è stato un po’ la riprova delle capacità che ha la televisione di rendere collettivi certi fenomeni. In questo senso – spiegava lo stesso Falqui -, era interessante scoprire la dimensione discreta e domestica del piccolo schermo, che, senza violare l’intimità della famiglia, introduce nella società nuovi modelli di partecipazione alla comunità. E poi l’italiano rimaneva appagato nel suo bisogno musicale che, ironicamente, era espresso nelle forme avvincenti della gara».

Ecco una ricostruzione della sua cifra artistica, elaborata attraverso le stesse spiegazioni che Falqui ha dato nelle sue interviste.

Politica e Rai

«Si dice sempre che è stata la politica a rovinare la Rai. Secondo me le si dà un’ importanza eccessiva per coprire la vera magagna: il trionfo, da un certo punto in avanti, degli incompetenti. Se il disastro cui siamo arrivati avesse davvero un fondamento politico, allora non si capisce perché ci troveremmo nella paradossale situazione di dover esaltare Bernabei: politicamente, da me distante; ma come direttore d’ azienda un gigante, se paragonato ai nani di oggi».

Falqui, nel 1996, guardava con rammarico a ciò che era stata la Rai, l’azienda alla quale ha dedicato la sua vita: «Hanno trovato dei registi galoppini, e progressivamente allontanato chiunque badasse alla qualità, al gusto, alla precisione. Se si pensa soltanto che ormai fanno sei ore di trasmissione come Domenica in quasi senza prove, come viene viene, all’impronta, poi si capisce perché i risultati sono quelli che sono».

La regia

«La ripresa di oggi è asintattica e casuale. I registi hanno a disposizione sette-otto telecamere e le usano per fare sfoggio di ripresa più che per necessità. C’è questa tendenza a realizzare tantissimi stacchi che non fanno altro che distrarre lo spettatore. Certo, in assenza di contenuti è un modo un po’ facile per non far annoiare lo spettatore».

Falqui, a fine carriera, sottolineava la degenerazione del ruolo del regista televisivo, un tempo anche autore e accentratore di potere artistico. «Oggi il regista non è più padrone dello spettacolo. A difendere quest’ultimo non ci pensa più nessuno, dato che al funzionario preoccupa solo il contenimento dei costi, agli autori lo share e al conduttore i soldi dello sponsor».

Mina e Antonello Falqui duranete la trasmissione Rai ”Milleluci” a Roma il 17 aprile 1974

Da Canzonissima a Milleluci

Il regista romano ha sperimentato molto durante la sua carriera, ridefinendo il suo stile di programma in programma. «Quando ho fatto la prima Canzonissima con Manfredi-Scala-Panelli, discussi con Garinei e Giovannini per mantenere lo studio vuoto, con la confluenza tra pavimento e fondale, così da ottenere l’illusione del personaggio nero sul fondo bianco indefinito».

«Se parliamo di intrattenimento, Studio Uno ha tirato giù lo spettacolo dal palcoscenico per portarlo nello studio televisivo, coinvolgendo la parte tecnica e facendo vedere tutto: luci, piazzamenti e passerelle. Quella era la specificità – sosteneva Falqui -. Studio Uno era anche la summa evoluta dei varietà precedenti, barocchi, provinciali, molto milanesi. Chissà perché in queste cose, già prima della tv commerciale, i milanesi sono così poco eleganti».

Criticava spesso la televisione di stampo milanese: «Prendiamo oggi Ricci e Limiti: in senso estetico sono di un gusto abbastanza discutibile. Rimane un mistero come quello che arriva da Milano, che è pure la capitale della moda, sia tutto piuttosto provinciale, molto colorato e abbastanza volgaruccio. Nei miei show, c’era la sorpresa, il grande effetto, il colpo di scena, il senso dello spettacolo, dello sbalordimento, non il bla bla. Sono sicuro che un programma come Milleluci, se fosse riproposto oggi alle nuove generazioni, sarebbe gradito».

Il varietà oggi

«Si dice che la televisione deve essere aderente alla realtà, ma il varietà è nato come uno svago, una visione, un’evasione: divertirsi e passare il tempo piacevolmente vedendo qualcosa di elegante. Il varietà non ha funzione culturale ma può almeno tentare di stimolare il senso critico e il buon gusto; mi sembra che oggi invece si punti solo sull’ovvietà e sulla volgarità. Dai tempi del Manifesto di Marinetti, il varietà è sempre stato un sogno». Negli ultimi anni, Falqui non ha mai smesso di osservare e studiare il settore della tv che l’ha reso grande.

«Nei varietà d’oggi, non c’è più lo spettacolo, che è fatto di numeri ben pensati, ben provati e ben architettati. Di idee al massimo ce ne sono due o tre, anziché venti. È più facile riempirlo con cinque drammi familiari anziché con cinquanta numeri di spettacolo: costa di meno e si risparmia in idee. Sono format cioè merce, non prodotti di qualità. Un’altra tragedia è il contenitore che, lo dice la parola stessa, contamina il varietà, il quale non deve essere un recipiente dove si mette tutto, ma un programma in cui ci si diverte con comici e ballerine. Non ci devono stare i libri, le foche e i reduci».

Le dichiarazioni di Falqui sono state estrapolate da:

  • www.antonellofalqui.com
  • Lo spettacoli in tv, ovvero la tv è meglio farla che guardarla – Luca Matera
  • Falqui, una tivù tutta da buttare – Repubblica
  • Povera Rai, tutti quizzettini e piagnistei – L’Espresso
  • Nel segno della tivvù – Repubblica

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