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Interviste emergenti: la speranza del rap italiano passa da Il Tre – Roma

18 Novembre 2019 - 16:23 Felice Florio
Oltre ai versi, oltre ai beat, c'è uno scopo dietro la musica del 22enne, romano verace: «Dare speranza ai "pischelli" che sono a pezzi e far capire loro che dalla vita possono avere di più»

Indipendente dallo stereotipo del rapper duro e truce, da sempre. Indipendente, musicalmente parlando, fino a un anno fa. Indipendente dal successo, che nel rap spesso corrisponde a cash e bitch, tutt’oggi. Guido Senia, in arte Il Tre, è un ragazzo a posto, con i casini in testa e i dolori nello stomaco di ogni ragazzo di 22 anni. La sua dote? Tradurre quel caos in versi velocissimi su beat serrati, con un solo dogma: l’importante è sentirsi felici.

Nel 2015 è uscito il suo primo mixtape, Cracovia vol.1. Poi ha pubblicato, due anni dopo, Cracovia vol.2. Il Tre si è fatto conoscere vincendo decine di contest, dove centinaia di ragazzi si sfidano all’ultima rima per farsi conoscere da un pubblico molto fedele. Quest’anno è arrivata la firma con l’etichetta Warner e l’uscita, a maggio 2019, del singolo L’importante. Lo scorso 3 settembre, «il giorno del mio compleanno», abbiamo messo online Cracovia parte 3: «Ha fatto il botto!».

L’unica cosa da fare è mettere l’impegno
Quando ho capito che curare la gente
E vedere mamma che splende
Mi faceva sentire meglio
Ho disegnato la mia vita su carta con tanta rabbia
Nel cuore tengo stretto questo disegno
Quando capisci queste cose qua
Capisci che devi star bene con te stesso
Quando capisci queste cose qua
Hai fatto un passo nel mondo di chi è contento

Il Tre – L’importante

Guido, quando è iniziata la tua esplorazione del rap?

«Intorno ai 14 anni ho scoperto questa cultura e non ho aspettato più di tanto prima di dirmi “voglio farlo anch’io”. A 15 anni ho iniziato a provarci. Il mio rapper preferito, in assoluto, grazie al quale ho conosciuto il rap, è Gemitaiz. Siamo entrambi di Roma e ho avuto la fortuna di vederlo un po’ di volte. Il primo concerto che ho visto nella mia vita è stato il suo. Mi dicevo “cavolo, voglio proprio essere come lui”. Gemitaiz mi ha spronato, anche se lui non lo sa».

Gli hai mai fatto ascoltare qualche tuo pezzo?

«Anche se adesso lavoriamo nello stesso settore e ci siamo incrociati in molti eventi, non mi sono mai avvicinato a lui per presentarmi. Non sono un tipo che stringe facilmente amicizia».

Sei introverso?

«Assolutamente sì. Sono un po’… un po’ molto introverso. Infatti non ho nessun rapporto con gli altri della scena rap. Pur facendo questo lavoro, sono spesso da solo. Conosco solo Fred De Palma, perché abbiamo fatto una data insieme, e Junior Cally che mi ha chiamato per il suo disco».

Quindi non sono cambiate le tue abitudini dopo l’exploit che hai avuto l’ultimo anno?

«Ma io sono abitudinario di natura. Sempre gli stessi amici di una vita, perché mi fido solo di loro. Stesso gusto di pizza, stesse cose al McDonald’s. Stessi posti in cui uscire. È bello infrangere saltuariamente quell’abitudine, adesso sono fissato con i viaggi. Però voglio continuare ad avere le mie sicurezze, la mia quotidianità. Così da infrangerla, ogni tanto, per ritrovare quella carica di adrenalina».

E questo spiega anche il tuo forte legame con Roma e la romanità.

«Più che con Roma, con tutto quello che c’è a Roma. Ho tutti gli amici qui: già lasciare loro sarebbe un passo troppo difficile per me. Poi lasciare i miei genitori. Sto bene a casa con i miei: non c’è niente di più bello di passare una giornata fuori con gli amici e tornare a casa, sedermi a tavola e cenare con mamma e papà. Mi piace. E ho anche la mia ragazza, siamo un po’ instabili, ma stiamo bene insieme. Ho tutto quello che mi serve a Roma».

Come passi la tua giornata tipo?

«Mi alzo molto comodamente, questa cosa l’ho presa da mio padre: non concepisco la mattina – ride -. Poi faccio un misto tra colazione e pranzo. Poi cerco di capire se è la giornata giusta per scrivere. Se non trovo l’ispirazione, sento un po’ di amici, faccio cose. Sai, questo lavoro ti dà tanto, ma sfasa un po’ la gestione del tempo: ci sono periodi in cui ogni giorno, a ogni ora, devi incontrare persone, andare in studio, girare i video. E mesi interi dove sei completamente free».

Ecco, raccontaci del Guido nel periodo free.

«Passo giornate intere a giocare a tennis, a ping pong o a calcetto con gli amici miei. Giornate intere. Ah poi, da quando ho scoperto che si possono “affittare” i motorini a Roma, sto sempre sui motorini con la ragazza mia: andiamo in giro, andiamo a comprare cose, andiamo a vedere posti».

E qual è il tuo luogo preferito?

«Ci sono dei posti che mi mettono uno stato d’animo particolare. Trastevere a notte fonda. Un laghetto a Tor di Quinto dove sono andato solo un paio di volte, ma lì mi sono sentito davvero in pace con me stesso. Ma il mio posto preferito è il letto della mia camera, con le luci basse e Netflix acceso. È il mio ideale di relax».

Dove hai studiato, che scuole hai fatto?

«Che scuola non ho fatto! Di base ho fatto lo scientifico. Quando finisci la scuola media non sai cosa fare esattamente. Mi sono iscritto allo scientifico perché avevo una ragazza che si è iscritta lì e l’ho seguita. Poi la nostra storia è finita malamente. Al terzo anno sono stato bocciato. Ho cambiato scuola. Sono stato bocciato lì e ho ricambiato ancora scuola. Arrivato in quinto mi sono detto: “Io devo fa er disco”. Mio padre e mia madre l’hanno presa malissimo. Soltanto oggi si sono resi conto di quanto era importante per me. Ma io non li biasimo, se mio figlio mi facesse una richiesta del genere in quinto liceo, penso che gli darei du pizze».

Alla fine sei riuscito a farlo quell’anno il tuo primo mixtape. Ma quando hai capito che la tua carriera poteva decollare?

«Quando ho iniziato a vincere i contest, mi sentivo un dio sceso in terra. Erano sfide con 400-500 rapper. Mi sono detto, ok, sta succedendo qualcosa. Poi il numero di click di chi voleva ascoltare il mixtape. Le copie fisiche, stampate subito dopo, andate sold out, le magliette e il merch uguale. Ecco, quando abbiamo esaurito le copie del mixtape, è stata la prima volta che ho visto i soldi».

Che anno era?

«Il 2018, quando è uscito il mixtape Cracovia vol.2. Ma io non avevo proprio mai calcolato il fatto di poter far soldi grazie alla mia musica. Non ho fatto ‘sta roba perché volevo guadagnare. Io ho fatto il rapper e voglio continuare a farlo perché mi piace. Semplice. Se oggi non mi pagassero, io continuerei a farlo comunque. Mio padre continuava a dirmi: “Non puoi vivere con questa roba”. E in quel momento, invece, gli stavo dimostrando che sì, si può. Sembra un discorso povero, davvero non è che lo faccia per un guadagno, però è giusto parlarne perché in qualche modo devo pur mangiare».

Ricordi la prima volta che i tuoi genitori sono venuti a sentire un tuo live?

«Era il 3 marzo 2018. Era la presentazione del mio mixtape, la prima volta in cui facevo un concerto seriamente. Ed è stato quasi come esordire in Serie A e c’è tuo padre che ti sta guardando. Non ho esordito in Serie A, però credo che la sensazione deve essere quella lì. Non c’erano 2mila persone, ma c’erano quelle persone che bastavano, che cantavano insieme a me. E so cosa ha pensato mio papà. So che ha pensato mia mamma. Quella serata allo Zoobar non la dimenticherò mai».

Come mai in tutte le tue produzioni citi la città di Cracovia?

«Io sto in fissa con le parole. E il suono di Cracovia mi piace, tantissimo. Poi è una città sanguinolenta, dove si sono combattute un sacco di guerre. Dalla sua storia ho preso ispirazione per fare la copertina del mio primo mixtape».

Hai fatto tutto da solo, artigianalmente?

«Non ho mai avuto un produttore fino a un mese fa. Ho sempre fatto roba su strumentale perché non mi piacevano i beat degli altri. Cercavo i suoni su YouTube, mi piacevano e buttavo giù il pezzo. Ho un mini studio fatto a casa mia e registravo con un mio amico che fa il cuoco. Adesso vive a Londra. Lui non capisce un cazzo di musica, registravamo tutto a orecchio in base al nostro gusto personale. Però la roba suonava bene. Adesso la storia è cambiata, anche la promozione: prima facevo una story su Instagram e dicevo “bella raga è uscito il mio pezzo”. Adesso c’è una struttura che mi può dare una mano».

In qualche modo sono cambiate le tue prospettive?

«Sinceramente? Il mio obiettivo adesso è arrivare all’oro con Cracovia vol.3, sarebbe una grande soddisfazione. Ma non ho chissà quali aspirazioni: il sogno era e resta quello di fare musica, fare i concerti con le persone che sono lì per me. Adesso mi sono fissato con l’oro per Cracovia, ma manco lo stavo prendendo in considerazione prima di entrare qui – negli uffici della Warner, ndr. -. Mi hanno detto “mettemose sotto che manca poco all’oro”».

Un bel record.

«Non voglio fa’ record: voglio fare sta roba, vivere con questa roba. Poi il resto non lo butto via, ma non mi interessa più di tanto. Non sogno chissà quale palco: il mio concerto ideale è quello che cerco di fare ogni volta. La gente deve tornare a casa più pesante di come è entrata, cioè con qualcosa in più dentro».

Qual è il messaggio che cerchi di dare con la tua musica?

«Il messaggio che voglio far passare ai ragazzi è semplice: fate quello che volete della vostra vita. È una sola, una volta arrivati a 40 anni, senza aver fatto ciò che potevate fare a 20, non lo potete più fare. Raga’, fate quello che volete, che vi sentite dentro. Ovviamente, dateve ‘na regolata».

Ultima domanda: Il Tre, perché?

«Perché nella mia famiglia siamo in tre. Mi sono sempre appoggiato sui miei genitori. Anzi, inizialmente no, poi però ho capito che la famiglia è la cosa davvero più importante. Nel momento in cui ho preso seriamente il rap, ho pensato a un nome da darmi e non c’era niente di più figo de “Il Tre”. In ogni mio brano, c’è un pezzo di mamma e papà».

Video: Vincenzo Monaco

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