«Se Ilva chiude così sarà impossibile riaprire». Il ricorso dei commissari per tenere l’acciaieria aperta
I toni del ricorso sono estremamente duri e le accuse non fanno giri di parole. Nel documento presentato oggi, 18 novembre, in tribunale a Milano, i commissari di Ilva chiedono ai giudici di impedire ad ArcelorMittal – attuale affittuario dell’impianto – di spegnere di botto gli impianti e ritirarsi da Ilva. Si appellano all’articolo 700 del Codice di procedura civile che, appunto, permette al tribunale di agire immediatamente quando gli interessi di una parte siano in grave pericolo.
Nel ricorso di 70 pagine, gli avvocati nominati dai commissari, Giorgio De Nova, Enrico Castellani e Marco Annoni, affrontano tutti i punti di cui si è discusso in queste settimane, fin da quando il 4 novembre scorso ArcelorMittal ha presentato in tribunale a Milano l’atto con cui chiede la rescissione del contratto di affitto di Ilva.
Vediamole per punti:
- Prima di tutto smentiscono che la cancellazione dello scudo penale sia la causa della rescissione del contratto o la legittimi. Quella iniziativa, scrivono, «nulla c’entra con le giustificazioni avanzate che non pervengono neppure ad un livello di dignitosa sostenibilità: essa è invece semplicemente strumentale alla dolosa intenzione di forzare con violenza e minacce un riassetto del sinallagma contrattuale precedentemente negoziato che il Gruppo ArcelorMittal evidentemente non ritiene più rispondenti ai propri interessi».
- Il punto vero, dicono ancora i commissari di Ilva, è che ArcelorMittal non ritiene più conveniente gestire l’impianto di Taranto: «A base dell’odierna condotta stanno semplicemente inaccettabili considerazioni fondate sulla propria (non) convenienza a continuare a dare esecuzione agli obblighi in precedenza assunti e i comportamenti adottati per perseguire tale illegittimo intento sono stati in sé programmati in modo da recare il maggior possibile livello di devastante offensività».
- Qui c’è l’accusa più grave. Secondo i commissari di Ilva, Arcelor non si è limitata a provare a sfilarsi da un contratto che ha firmato appena due anni fa (operativo da 1 anno). Andandosene dall’Italia, vogliono anche distruggere un concorrente sulla piazza europea. Ed è per questo che se ne vogliono andare in soli 30 giorni, senza dare la possibilità di riorganizzare l’azienda e interrompendo tutte le operazioni necessarie alla sua sopravvivenza: «Un quadro generale che non può evidentemente che dare fiato a chi, al momento del Contratto, aveva pronosticato che sarebbe rapidamente emerso che ArcelorMittal aveva stipulato il Contratto al solo fine di uccidere un proprio importante concorrente sul mercato europeo».
Hanno dunque «interrotto qualsiasi ordine di materie prime», «rifiutato nuovi ordini dei clienti», «interrotto i rapporti con i subfornitori» e «interrotto l’avanzamento del Piano Ambientale e sta interrompendo la manutenzione degli impianti».
Se Ilva chiude di botto, all’Italia, dicono, resteranno solo «le macerie di quanto affidato in conduzione»: impianti irrimediabilmente compromessi, nessuna materia prima per riavviare la produzione, nessun dirigente e quadro aziendale per gestire l’attività.
A queste accuse, i ricorrenti aggiungono anche le immagini dello stabilimento come è ora. «Le operazioni di fermata impianto lunghe settimane o mesi che in ragione delle condotte di ArcelorMittal necessariamente conseguirebbero alla riconsegna degli impianti perseguita dalla controparte, non ne consentirebbero nessun utile riavviamento».
Insomma, se Ilva chiude adesso non riapre neppure volendo: gli altiforni saranno nei fatti distrutti.
Ora la palla passa ai giudici milanesi: hanno tempo fino al 4 dicembre per intervenire e bloccare l’addio di Arcelor. Una prima mossa l’ha fatta il presidente del tribunale invitando l’azienda a interrompere le procedure di spegnimento e Arcelor per il momento l’ha fatto, annunciando che aspetterà fino al 27 novembre, data della prima udienza civile. Poi, saranno solo carte bollate.
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