Carola Rackete è tornata in Italia, la capitana a Milano: «Lo dovevo a chi mi ha sostenuta e ai migranti che ancora attraversano il mare»
Carola Rackete è tornata in Italia. L’ultima volta che l’avevamo vista era a luglio scorso, quando, dopo l’ultimo interrogatorio in procura ad Agrigento, aveva preso le sue cose ed era rientrata in Germania da libera cittadina. Questa volta, però, non ci sono forze dell’ordine che la circondano, se non per proteggerla da possibili episodi spiacevoli. Seduta in una sala al primo piano della Fondazione Feltrinelli di Milano, Rackete non deve preoccuparsi che qualcuno la riprenda di nascosto urlandole contro frasi oscene, come era accaduto a Lampedusa con le contestazioni leghiste.
L’incontro, dal titolo “Milano porto sicuro” e organizzato da Pierfrancesco Majorino di Casa Comune, non è aperto al pubblico e si svolge quasi in segreto. La polizia ha dato disposizioni chiare: è più sicuro per lei se viene in Italia senza fare troppo rumore. Che il nostro sia un Paese pericoloso stenterebbe a crederlo chiunque, eppure il rischio c’è: dopo la vicenda di giugno scorso, quando la Capitana della Sea Watch 3 forzò il blocco navale imposto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per portare a riva 43 migranti, l’attivista tedesca è finita al nel vortice di insulti e minacce di ogni tipo. Anche – e soprattutto – dopo la mancata convalida del suo arresto per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
«Il fatto che Carola si senta poco sicura nel mio Paese mi ha colpita profondamente», dice Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italia. «Ma tornare era necessario. L’Italia ha bisogno di simboli, di una persona che sappia veicolare messaggi di umanità». Da quei giorni, la nave dell’Ong tedesca è bloccata nel porto di Licata senza che le venga dato il permesso di ripartire.
Sul palchetto, Carola è circondata da esponenti di associazioni e organizzazioni che operano tra Lampedusa e Milano. C’è Mediterranean Hope, un progetto della Fondazione Chiese che a Lampedusa assiste ogni giorno alla tragedia delle migrazioni via mare. C’è Lampedusa Solidale, formata da un gruppo di cittadini che nei giorni in cui la Sea Watch 3 era bloccata a largo aveva dormito fuori dai gradini della Chiesa per dimostrargli che non erano soli. C’è Fondazione Progetto Arca, che da oltre 25 anni opera su Milano per dare una mano a chiunque, italiano o meno, si trovi in difficoltà abitativa.
C’è il St. Ambroeus, una squadra di calcio di terza categoria fondata e presidiata da richiedenti asilo ritrovatisi nei centri di accoglienza nelle periferie della città. Davide Salvatore, uno dei primi componenti, siede vicino a Carola e al suo compagno di squadra Laye, arrivato dal Senegal cinque anni fa quando aveva solo 17 anni. Sulla maglia ha scritto: «Solidarity is not a crime».
«Siamo undici livelli sotto la Serie A», dice Davide ridendo. «Ma dateci fiducia! Se riuscissimo ad avere i documenti per tutti potremmo tesserarci e partecipare ai campionati più importanti». Carola ascolta in silenzio, e parla solo quando è sollecitata da Linardi, che alla fine sceglie di guidare il suo intervento attraverso le pagine del suo nuovo libro, Il mondo che vogliamo. Appello all’ultima generazione, uscito in Italia lo scorso 4 novembre per Garzanti.
Disastro ambientale e migrazioni: «Le persone lasciano le loto terre perché queste non gli danno più lavoro»
«Non avevo mai pensato di diventare autrice», dice l’attivista, che ha redatto il libro insieme a una ghost writer. «Poi ho pensato che potesse essere un’opportunità per divulgare quello che ho imparato durante le mie missioni in nave come ricercatrice ambientale e poterle connettere con l’esperienza con la Sea Watch. La domanda che muove tutto il libro è: perché le persone sono costrette a partire?».
Tutti i ricavati dal libro sono devoluti a Borderline Europe, un’ong che si batte per un’Europa senza muri e senza barriere. Perché il sistema in cui viviamo, dice, è di per sé interconnesso: «Tutto quello che facciamo influenza le persone da ogni parte del mondo. Una volta ho incontrato una donna del Kenya che aveva un figlio malato. Alla fine si è scoperto che era stato avvelenato dai rifiuti tossici che la Germania aveva portato lì ma che non aveva mai smaltito. Per cambiare il mondo è necessario cambiare il modo in cui si vive».
Una risposta politica: incontrarsi
Alla fine del suo intervento, qualcuno le chiede quale sia per lei una soluzione politica percorribile. Da dove ripartire per cambiare le cose? Carola un po’ tentenna, ma alla fine la risposta che dà è quella che abbiamo tutti sotto gli occhi: «Bisogna aderire alle associazioni come quelle che ci sono qui oggi», dice. «Fare qualcosa localmente. La cosa importante è incontrarsi e abituarsi a stare insieme».
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