Caso ex Ilva: in attesa dell’incontro Mittal-Conte, facciamo chiarezza
C’è una data: il 22 novembre, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontra Lakshimi Mittal, Ceo e presidente di ArcelorMittal. Quella che manca ancora è una soluzione. Mentre le procure di Taranto e Milano ipotizzano reati riconducibili al depauperamento del ramo di azienda, il governo prova a reintrodurre lo scudo penale per privare di ogni alibi l’azienda franco-indiana. Di mezzo ci vanno gli oltre 10mila lavoratori degli stabilimenti italiani del gruppo e tutte le piccole e medie imprese dell’indotto che vivono delle forniture dell’ex Ilva.
Le genesi del problema
Il caso è scoppiato quando il governo Conte bis ha depotenziato il cosiddetto “scudo penale”, una norma che tutelava i gestori di ArcelorMittal da eventuali problemi ambientali e di sicurezza derivanti dalle gestioni precedenti dello stabilimento. Questo scudo è stato inserito nella normativa quando avvenne la gara d’appalto per la gestione dell’ex Ilva: doveva consentire una riconversione ecologica dello stabilimento che da anni non rispettava le leggi sull’inquinamento. Una norma ad hoc, poiché gli impianti ex Ilva sono ritenuti asset strategici dell’Italia: producono ogni anno acciaio per il valore di 3,5 miliardi di euro.
Solo un pretesto
La realtà è che la revoca della protezione, che di fatto consentiva una reiterazione dei reati ambientali, è stata utilizzata come pretesto dai Mittal per rescindere il contratto di gestione dell’azienda italiana. Anche perché, in realtà, nel contratto non risulta esserci nessun vincolo riguardante lo “scudo penale”. Ciò che è emerso quando il governo Conte ha espresso la disponibilità a reintrodurre una norma a tutela degli amministratori dell’ex Ilva, è che l’azienda franco-indiana ha fatto appello alla crisi globale del settore acciaio per giustificare una serie di interventi per contrarre la produzione in Italia.
Le quattro richieste ArcelorMittal
Da quanto hanno fatto trapelare i dirigenti dell’azienda, la questione “scudo penale” è solo una delle quattro condizioni che ArcelorMittal chiede per continuare a operare in Italia. Prima, appunto, è la reintroduzione dello “scudo penale” che permetta l’impunità almeno fino al 23 agosto 2023, data di scadenza per rientrare nei criteri delle prescrizioni di legge e della Corte dell’Aia. Seconda, ed è quella che ha più incidenza sul tessuto sociale, è l’autorizzazione a licenziare circa 5mila dipendenti, più o meno il 50% della forza lavoro impiegata attualmente. Terza, l’approvazione di una legge che superi le eventuali indicazioni della magistratura circa la chiusura di alcuni altoforni. Quarta, la riduzione della produzione dell’acciaio da sei a quattro milioni di tonnellate l’anno.
«Non spegnere gli altiforni»
Sembra rientrata l’ipotesi per cui ArcelorMittal spegnerebbe gli altiforni 1, 2 e 4. Al numero 2 sarebbe toccato il prossimo 13 dicembre, ma le inchieste delle procure di Taranto e Milano e l’incontro tra Conte e Mittal il 22 novembre pare siano riusciti a scongiurare lo spegnimento: interrompere la lavorazione dei minerali potrebbe portare a un deterioramento irreversibili dei materiali che compongono gli altiforni. Il rischio c’è, e per questo l’azienda franco-indiana potrebbe cercare altre soluzioni meno drastiche per sciogliere il contratto con lo Stato italiano. O addirittura, ipotesi remota, strappare un compromesso favorevole per continuare a operare nel nostro Paese.
Gualtieri: «Sì a scudo se c’è accordo»
«Se si definisce un accordo con Mittal nel quadro di questo accordo ci sarà anche la componente dello scudo penale. Io penso che debba essere fatto ma in un quadro complesso». A dichiararlo, Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia. Si dice sicure che l’ex Ilva non chiudere perché «perché l’Italia ha bisogno di un’acciaieria. Auspico una ripresa del negoziato. Questo è un momento delicato. Da Arcelor Mittal è arrivato un primo segnale positivo anche se legato alla vicenda processuale». Non abbassa i toni Conte che annuncia battaglia in vista di venerdì: «Porterò la determinazione di un presidente del Consiglio di un Paese del G7 dove si viene e si rispettano le regole: non ci si può sedere e firmare un contratto e dopo qualche mese iniziare un’attività di dismissioni per andare via. Mi auguro che possa capire questa situazione e assumere un atteggiamento ben diverso da quello preannunciato nell’incontro precedente».
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