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Fine vita, depositata la sentenza: «Ecco quando l’aiuto al suicidio non è punibile»

22 Novembre 2019 - 15:35 Angela Gennaro
791 persone si sono rivolte a Cappato, Mina Welby e Gustavo Fraticelli per un aiuto nel fine vita. «Se contassimo anche chi li ha contattati in forma anonima, il numero si quadruplicherebbe», dicono dall'associazione Coscioni

in alcune determinate condizioni, un malato sottoposto a sofferenze insopportabili può essere aiutato a morire, e che tale aiuto debba essere fornito dal Sistema Sanitario Nazionale. È quanto emerge dalla lettura della storica sentenza sul fine vita, sulla punibilità dell’aiuto al suicidio – e sul caso di Dj Fabo – del 25 settembre scorso e depositata oggi, 22 novembre. «E’ una sentenza di portata storica, che cancella, in nome della Costituzione repubblicana, la concezione da Stato etico che ha ispirato il Codice penale del 1930», commenta l’associazione Luca Coscioni. «La Corte costituzionale apre la strada finalmente a una buona normativa per garantire a tutti il diritto di essere liberi fino alla fine, anche per chi non è attaccato a una macchina ma è affetto da patologie irreversibili e sofferenze insopportabili», commentava a settembre l’avvocata Filomena Gallo, Segretario Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio di difesa di Marco Cappato.

Le motivazioni

La questione di legittimità sollevata riguardava l’articolo 580 del codice penale che punisce, con pene tra i 5 e i 12 anni di carcere, l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Nella sentenza n. 242 (relatore Franco Modugno) la Corte costituzionale – decorso inutilmente il termine di circa un anno dato al Parlamento, con l’ordinanza n. 207/2018 per legiferare – spiega le motivazioni della storica decisione di fine settembre sul fine vita. Il parlamento, nonostante avesse avuto un anno di tempo per ovviare alla dichiarazione di incostituzionalità e quindi al vuoto normativo, non è intervenuto. Ma «l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore», scrive la Corte. «E se la dichiarazione di incostituzionalità rischia di creare vuoti di disciplina che mettono in pericolo diritti fondamentali, la Corte costituzionale deve preoccuparsi di evitarli, ricavando dal sistema vigente i criteri di riempimento, in attesa dell’intervento del Parlamento».

L’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione, spiega la Consulta. Anzi, «è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili». Ma esistono dei casi – una «circoscritta area» – in cui l’incriminazione è incostituzionale: quando «l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Il processo

Fabiano aveva diritto alla bellezza. Come tutte e tutti. «Sono sempre stato un ragazzo molto vivace. Un po’ ribelle, nella vita ho fatto di tutto. Ma la mia passione più grande è sempre stata la musica. Così divento dj Fabo», diceva di sé Fabiano Antoniani, neoquarantenne, nel suo primo messaggio pubblicamente lanciato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2017. La Consulta era chiamata a esprimersi sul suo caso. Fabiano Antoniani, si sa, era rimasto cieco e tetraplegico a causa di un incidente stradale, e ha scelto di andare in Svizzera a morire, con il suicidio assistito, il 27 febbraio 2017. Insieme a lui, Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che il giorno dopo si è autodenunciato alla procura di Milano: da qui il processo e la questione di incostituzionalità dell’aiuto al suicidio sollevata dinanzi alla Consulta. La Corte, dal canto suo, nel 2018 aveva dato un anno di tempo al Parlamento per colmare il vuoto legislativo. Ma al 25 settembre 2019 non c’è traccia di una legge: la Corte Costituzionale ne prende atto e apre, di fatto, al suicidio assistito.

«Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia», spiegava Fabo. È di queste ore un nuovo appello: quello di Maria Sole Carcione, 63enne fiorentina, malata di Sla e morta lunedì mattina nella sua casa a Firenze, era pronta ad andare a sua volta in Svizzera. Anche da lei è arrivato un video-appello per chiedere una legge sul fine-vita.

E ora?

«In base alla legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (legge 22 dicembre 2017, n. 219, sulle DAT), il paziente in tali condizioni può già decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, che lo pone in stato di incoscienza fino al momento della morte. Decisione che il medico è tenuto a rispettare», si legge nella sentenza della Corte Costituzionale depositata oggi. Ma in Italia non è legale mettere «a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte». E succede quello che è successo a Fabo: «Il paziente è così costretto, per congedarsi dalla vita, a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care». E questo limita «irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze», garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.

La conseguenza non può essere rimuovere tout court le «condotte di aiuto al suicidio delle persone che si trovano nelle condizioni indicate». Senza una normativa su come debba funzionare quell’aiuto si creerebbe, infatti, avverte ancora la Consulta, «una situazione densa di pericoli di abusi nei confronti delle persone vulnerabili». Insomma, sarebbe il turno del Parlamento. E alle Camere la Corte aveva in effetti rimandato nel 2018. Nulla, da allora, è cambiato. E per questo la Consulta è “costretta”, in qualche modo, a supplire e a «porre rimedio, comunque sia, alla violazione riscontrata».

Nella combo (in alto da sinistra) Dj Fabo, Eluana Englaro, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby. Roma, 14 dicembre 2017. ANSA

«Se il Parlamento dovesse continuare a girare la testa dall’altra parte, la disobbedienza civile di Marco Cappato, Mina Welby e Gustavo Fraticelli proseguirà nel caso di richiesta d’aiuto a morire da parte di persone affette da patologia irreversibile e sofferenza insopportabile», annuncia oggi l’associazione Luca Coscioni. Sono 791 le persone che si sono rivolte a loro in forma non anonima per un aiuto nel fine vita. «Se contassimo anche chi li ha contattati in forma anonima, il numero si quadruplicherebbe». La sentenza «è direttamente applicativa perché rende le leggi già esistenti corrispondenti al dettato costituzionale confermando la libertà di scelta nel fine vita del malato in determinate condizioni che sceglie il suicidio assistito», spiega oggi Filomena Gallo, segretaria dell’associazione e coordinatrice nel collegio di difesa a Marco Cappato.

Di fatto, ora, l’incriminazione di un eventuale aiuto al suicidio che segua le dinamiche del caso di Fabiano Antoniani è incostituzionale. Per dirla con le parole della Consulta, l’articolo 580 del Codice penale è «costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versi nelle condizioni indicate in precedenza, a condizione che l’aiuto sia prestato con le modalità previste dai citati articoli 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 e sempre che le suddette condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

La corte, spiega l’associazione Coscioni, «rende noto che condizioni procedurali introdotte con la sentenza della Consulta valgono esclusivamente per i fatti ad essa successivi». Quindi per i processi in corso: il caso di dj Fabo per cuo è imputato a Milano Marco Cappato, ma anche il caso Davide Trentini che vede imputati lo stesso Cappato insieme a Mina Welby, «occorrerà che l’aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità anche diverse da quelle indicate, ma che diano garanzie sostanzialmente ad esse equivalenti; in particolare quanto a verifica medica delle condizioni del paziente richiedente l’aiuto, modi di manifestazione della sua volontà e adeguata informazione sulle possibili alternative».

In copertina un’immagine, tratta dal profilo Facebook dell’Associazione Luca Coscioni, di dj Fabo/Facebook

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