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La parola della settimana: “Intersezionalità”

23 Novembre 2019 - 00:16 Giada Ferraglioni
La terza generazione del femminismo ha aperto le porte a nuove individualità e a un diverso modo di affrontare le discriminazioni sociali

Provate a dire a qualcuno che oggi, nel 2019, vi considerate delle femministe o dei femministi. Provate a parlare di privilegio maschile con i vostri colleghi e le vostre colleghe in ufficio, magari mentre lavorate insieme a un progetto per la vostra azienda. Provate ad affrontare il discorso delle diseguaglianze, e il risultato sarà più o meno lo stesso.

Nella stragrande maggioranza dei casi vi verrà rivolto un gran sorriso e vi verrà detto: «La discriminazione di genere è un concetto anacronistico. Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini». 

La percezione comune del femminismo in Italia, infatti, è più o meno ferma alle rivendicazioni e alle lotte della prima generazione. Chiunque non sia vicino a queste questioni, davanti alla parola “femminismo” si ritroverà a pensare alle mobilitazioni delle donne che, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, combatterono per i diritti civili (il diritto di voto, di proprietà, di lavoro, etc).

A oggi, arrivati ormai alla terza ondata di femminismo, la questione è radicalmente diversa. Spiegarla senza far riferimento al concetto di intersezionalità è impossibile: un termine che ha ormai 30 anni di storia sulle spalle, ma che ha trovato nuova linfa nei movimenti transfemministi nati tra i diversi continenti. Un termine che rende conto delle discriminazioni di genere e di orientamento sessuale, e che coinvolge tutti quegli uomini oppressi dalla cosiddetta “dittatura machista”.  

Un modo nuovo di pensare l’identità

In un’intervista del 2018, Kimberlé Crenshaw, l’attivista statunitense nota per aver aperto la strada al concetto di “intersezionalità”, ha spiegato in parole semplici il senso della parola. «L’intersezionalità è una metafora per capire come le diverse forme di ineguaglianza e discriminazione talvolta si mischino tra loro, creando ostacoli che spesso non sono compresi da un modo convenzionale di pensare».

«Non è una vera e propria teoria», continuava Crenshaw. «Ma uno strumento per capire alcuni problemi sociali. Ad esempio, le donne afroamericane sono soggette a discriminazioni il 60% in più di quanto non lo siano le donne bianche. Si trovano a dover fronteggiare non solo un problema di genere, ma anche di razza».

Il termine “intersezionalità” non è certo una parola nuova. Già nel discorso di Sojourner Truth Ain’t I a Woman? (« Non sono io forse una donna?»), tenuto nel 1851 alla Women’s convention di Akron, in Ohio, era chiaro il bisogno di una politica che incrociasse diverse problematiche e urgenze. Che tenesse insieme, cioè, le oppressioni razziali, di genere e di classe nella lotta per i diritti.

«Nessuno mi ha mai aiutata a salire in carrozza o ad attraversare pozzanghere di fango o mai mi ha dato un posto migliore», diceva Truth in un passo del suo potentissimo discorso. «E non sono io forse una donna? Guardami! Guarda il mio braccio! Ha arato e seminato e riempito i granai e nessun uomo poteva tenermi testa…E non sono io forse una donna?».

Prendere in considerazione tutte le variabili degli esseri umani porta con sé una conseguenza fondamentale: ripensare l’individualità – e ripensare, cioè, il fondamento della cultura occidentale dall’epoca moderna in poi. «L’identità è semplicemente un contenitore di relazioni», diceva ancora Crenshaw. «Relazioni tra le persone e la storia, le persone e le comunità in cui vivono, le persone e le istituzioni». Non si è solo un genere, un orientamento sessuale, o un colore della pelle: si è l’insieme delle esperienze e delle contingenze. 

«Machismo es terrorismo» : oltre il binarismo di genere

Qualche tempo fa, nel tentativo di indagare il significato del termine “queer”, noi di Open chiedemmo a un libraio di Milano (specializzato in tematiche Lgbtq+) di suggerirci tre libri che ci aiutassero a definire al meglio la parola. Dopo una mezz’oretta di ricerca, il libraio dovette ammettere che in effetti era più facile trovare degli indizi su cosa non fosse il “queer”, piuttosto che trovarne delle descrizioni accurate.

Queer” era, per antonomasia, tutto ciò che sfuggiva alla definizione. Non era un genere, ma nemmeno non lo era. Non era un orientamento sessuale, ma nemmeno era altro rispetto alla sessualità e al desiderio. Non era un modo di vestirsi, ma nemmeno rifiutava l’eccentricità del corpo come metodo di espressione. Non era un gruppo organizzato, ma di certo non era un movimento apolitico. “Queer” era tutto ciò che un essere umano poteva essere una volta rotte le catene del genere, della razza e della classe sociale. 

Luigi Ippoliti | Murale a Coimbra, Portogallo

Quello che evoca l’idea di intersezionalità è esattamente questo: non esistendo un’individualità giusta e una sbagliata, non esisteranno nemmeno categorie come “vero uomo” e “vera donna”. Se, come scriveva Monique Witting, c’è bisogno di uccidere il “mito della donna” per liberarle tutte, allo stesso modo ci sarà bisogno di uccidere il mito dell’uomo forte, etero, bianco e benestante per liberare il mondo intero – e gli uomini stessi.

Non Una di Meno e la terza generazione del femminismo: «Questa lotta è anche la tua lotta»

Il movimento femminista Ni Una Menos aveva poco più di un anno quando, sul blog della sua sezione italiana, venne pubblicato un articolo piuttosto esplicativo. «Se seguiamo i vari assi di oppressione dal lato dei privilegiati, incontriamo un personaggio ben preciso: un uomo cis-gender ed eterosessuale, bianco e benestante, adulto, con un corpo funzionale, e tutta una serie di stereotipi accessori che lo caratterizzano (per esempio, ama il calcio, ha un carattere forte ed estroverso, ha avuto moltissime amanti, ma ora sta mettendo su famiglia con una bella fidanzata/moglie)». 

«È quindi questo il nemico del femminismo intersezionale?», si chiedevano le autrici del pezzo. «No, il nostro scopo non è eliminare o soggiogare le persone che abbiano queste caratteristiche; il nostro nemico è il sistema stesso, gli assi di oppressione che mettono su un piedistallo l’uomo di quel genere: vogliamo far saltare per aria il piedistallo, non l’uomo».

Oggi, in America Latina, dove sono nati i movimenti di Ni Una Menos nel 2015, la situazione politica mostra ancora una volta l’urgenza di un certo tipo di rivendicazione. Lo scorso anno, la politica brasiliana Marielle Franco è stata uccisa mentre tornava nella sua favela per il solo fatto di essere un’attivista donna, nera, lesbica e povera.

Da un mese a questa parte, la stessa sorte è toccata e tocca ancora a diverse donne torturate, violentate e uccise in Cile durante le repressioni delle proteste contro il governo di Sebastián Piñera. L’ultima vittima, della cui morte si sa ancora poco, è stata l’artista di strada Daniela Carrasco, detta “El Mimo”, trovata impiccata in un parco di Santiago. Con il suo corpo, Mimo era stata in grado dare vita a una rappresentazione stroboscopica dell’identità. La strada è ancora lunga.

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