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“Non una di meno” a Roma contro la violenza di genere: la storia del movimento femminista che attraversa i continenti

23 Novembre 2019 - 06:18 Giada Ferraglioni
Da dove nasce e cosa rivendica il movimento transfemminista internazionale

Il movimento transfemminista italiano scenderà in piazza oggi, 23 novembre, per continuare la battaglia contro la violenza di genere e l’ineguaglianza sociale. A due giorni dalla giornata mondiale contro la violenza sulle donne, le attiviste e gli attivisti di Non una di meno tornano a manifestare contro un sistema «patriarcale, coloniale e capitalista» che non tutela le vite di chi lo abita.

«Ogni 72 ore in Italia una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza, solitamente il suo partner», scrivono nell’appello. «Ma noi sappiamo che la violenza può colpire chiunque di noi e che non ha passaporto, colore né classe sociale, ma spesso ha le chiavi di casa. È la storia di tante donne e di persone non conformi al modello patriarcale che ogni giorno si ribellano a molestie, stalking, violenza domestica, psicologica, sessuale ma trovano ulteriore violenza nei tribunali».

La manifestazione partirà da Piazza della Repubblica, a Roma, città in cui da tempo le attiviste si battono contro la chiusura della Casa delle Donne Lucha y Siesta. Nell’edificio, di proprietà dell’Atac e rimasto dismesso per anni, un gruppo di donne ha costruito un punto di riferimento per l’autodeterminazione femminile. Ora, secondo le disposizioni della giunta di Virginia Raggi, dovrà essere sgomberato.

La storia di Non una di meno

La storia di Non una di meno parte dall’America Latina, precisamente in Argentina, quando un gruppo di giornaliste e docenti lanciarono un appello contro le violenze di genere e i femminicidi che stavano attraversando (e attraversano tutt’ora) il Paese. Lo slogan che usarono, “Ni una menos“, era ispirato a un testo della poeta e attivista messicana Susana Chavez (“Ni una mujer menos, ni una muerta más“), uccisa nel 2011 per aver denunciato i crimini contro le donne messicane.

Lo slogan diventò presto un hashtag e iniziò a rimbalzare di profilo in profilo. Numerosissime donne, anche molto giovani, iniziarono a raccontare pubblicamente la loro esperienza di violenze e abusi.

La marea di partecipazione sfociò presto in una manifestazione fisica: il 3 giugno del 2015, in Piazza del Congresso a Buenos Aires si ritrovarono centinaia di migliaia di persone a protestare contro una società che permetteva l’uccisione, in media, di una donna ogni trenta ore.

Lima, Peru, 12 August 2017. EPA/ERNESTO ARIAS

Da quel momento in poi, le lotte femministe contro il sistema patriarcale, coloniale e capitalista hanno attraversato l’intero continente. La loro eco è arrivata negli Stati Uniti, dove nell’ottobre del 2017 è nato il movimento del #MeToo contro le molestie sessuali e gli abusi sul posto di lavoro – convertitosi presto nello slogan attivo, e diffuso in tutto il mondo, #WeTogether.

La prima grande manifestazione in Italia ci fu l’8 marzo 2016, in occasione della Festa della donna. Un folto gruppo di persone si riunì a Roma per tornare a pensare la ricorrenza come un’occasione di attivismo politico, di scioperi e di lotta contro le violenze e le privazioni sistematiche. Da quel momento in poi, i collettivi di Non una di meno si moltiplicarono nelle diverse città italiane, così come le assemblee e i dibattiti. La partecipazione sfociò nella oceanica manifestazione del 24 novembre del 2018 e nello sciopero generale dell’8 marzo 2019.

Open | Corteo a Roma del 24 novembre 2018

Man mano che le manifestazioni prendevano piede, a protestare per un sistema più equo non c’erano più solo le donne: anche uomini e persone vicine alla comunità Lgbtq+ abbracciarono in toto la causa. Una nuova ondata di femminismo era ormai nata.

«In tutto il mondo le donne sono in rivolta contro la violenza patriarcale, razzista, istituzionale, ambientale ed economica», scrivono ora le attiviste di Non una di meno nell’appello per la manifestazione di oggi.

«In Sud America, in Medio Oriente, In Asia, in Africa, in Europa le donne e le persone Lgbtqipa+ stanno affermando chiaramente che nessun processo di democratizzazione e liberazione è possibile senza trasformazione radicale dell’esistente. In Cile, in Messico, in Ecuador, in Argentina, in Brasile, le donne lottano contro la violenza patriarcale e economica che attacca i corpi e l’ambiente».

La solidarietà alle combattenti curde

«Le donne curde stanno difendendo e portando avanti un processo rivoluzionario femminista, ecologista e democratico e combattono per la liberazione da ogni fondamentalismo e contro l’autoritarismo turco», scrivono ancora le attiviste. «Il 23 novembre ci uniremo a queste sollevazioni globali, dalle quali traiamo forza e convinzione!».

Da quando la situazione nel nord-est siriano è stata portata nel caos prima dall’invasione turca, poi dalla spartizione del controllo nei territori tra Turchia, Russia e Siria, centinaia di combattenti delle Forze Democratiche Siriane sono stati uccisi, torturati e imprigionati.

Combattenti curde dello Ypj

Tra chi ha subito le maggiori violenze sono state le miliziane dello Ypj (Unità di Protezione delle Donne), la delegazione femminile dello Ypg. A testimoniare gli abusi delle milizie mandate da Recep Tayyip Erdoğan ci sono diverse foto e video, tra cui quello in cui un miliziano mostra il corpo di una combattente a Tel Abyad, città all’inizio dell’area di controllo turco: «Questa è una delle vostre put***e che ci avete inviato», dice ridendo.

Oltre alle violenze sulle guerrigliere, tra le uccisioni simbolo dell’invasione turca c’è stata quella di Hevrin Khalaf, 35enne segretaria generale del Partito Futuro siriano, nonché una delle più note attiviste per i diritti delle donne in Siria. Khalaf è stata uccisa lo scorso 13 ottobre dalle forze filo-turche con colpi d’arma da fuoco durante i giorni dell’operazione “Fonte di Pace” nel nord-est siriano.

Le violenze in Cile

Da quando a metà ottobre scorso sono iniziate in Cile le proteste contro il governo di Sebastián Piñera e le diseguaglianze sociali, le denunce di torture, stupri e uccisioni sono all’ordine del giorno. Ad aver alzato la voce per prima è stata Sumargui Vergara, sociologa cilena, che sul suo blog ha iniziato a documentare quanto accadeva.

«Le ragazze che sono state arrestate dalla polizia hanno dichiarato di essere state spogliate e violentate dalle forze dell’ordine», scrive Vergara. «Ma non ci sono registrazioni che lo possano confermare, non c’è difesa, è tutto irregolare».

Il 20 ottobre, l’artista di strada Daniela Carrasco, nota come “el Mimo”,è stata trovata morta impiccata a una ringhiera di un parco alla periferia di Santiago. Le attiviste di Non una di meno, convinte che non si sia trattato di suicidio, hanno chiesto spiegazioni: «C’è chi afferma che è stato un monito per abbassare le mobilitazioni. Chiediamo d’indagare su chi è stato».

A sensibilizzare il mondo sulle violenze cilene è intervenuta anche la cantante di Viña del Mar Mona Laferte. Durante i Grammy Award dell’America Latina, l’artista si è sfilata l’abito e ha mostrato la scritta sul petto: «In Cile torturano, stuprano e uccidono».

Durante la sua premiazione (ha vinto il riconoscimento per il miglior album di musica alternativa, “Norma”), Laferte ha recitato i versi di una sua collega, La Chinganera: «Il Cile mi fa male dentro/ E mi sanguina per ogni vena/ Pesa ogni catena/ Questo ti imprigiona al centro/ Cile fuori, Cile dentro/ Il Cile al suono dell’ingiustizia/ Lo stivale della milizia/ Il proiettile di chi non ascolta/ Non fermeremo la nostra lotta/ Fino a quando la giustizia non sarà fatta».

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Foto di copertina: Facebook di Vittorio Giannitelli rielaborata da Open

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