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Cina, la verità dalla fuga di documenti. Come funzionano i “lager” per gli uiguri musulmani

26 Novembre 2019 - 07:30 Cristin Cappelletti
I documenti ottenuti dall'International Consortium of Investigative Journalism rivelano un sistema di prigionia di massa

Un lavaggio del cervello sistematico per milioni di uigiri musulmani detenuti in Cina nella regione dello Xinjiang. È quanto rivelano i documenti ufficiali delle autorità cinesi di cui è entrato in possesso l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), a cui appartengono anche la Bbc e il The Guardian. I documenti classificati sono arrivati all’ICIJ attraverso una catena di uiguri esiliati. Il governo cinese sostiene però da tempo che i campi dello Xinjiang offrano istruzione e formazione volontaria contro l’estremismo alla minoranza uigura. Dai documenti trapelati, ribattezzati China Cables, emerge invece come Pechino abbia dato istruzioni precise su come gestire questi posti: cioè prigioni di massima sicurezza, con una rigida disciplina, punizioni e divieto di fuga, dove la vita dei detenuti viene monitorata continuamente.

Negli ultimi due anni attraverso descrizioni, testimonianze di ex detenuti, e immagini satellitari è emerso un sistema di campi gestiti dal governo nello Xinjiang abbastanza grande da contenere un milione o più di persone. Ultima in ordine di tempo è la rivelazione fatta dal New York Times che attraverso documenti classificati ha svelato gli ordini impartiti dal presidente cinese Xi Jinping in merito alla repressione degli uiguri: “Nessuna pietà”. Ma quello messo in atto da Pechino è un sistema pensato nei minimi particolari, un sistema di massima sorveglianza orwelliana grazie al supporto di tecnologia super sofistica fornita, secondo diverse denunce, da aziende cinese come Huawei e da tecnologia statunitense super specializzata.

Secondo Adrian Zenz, accademico tedesco esperto della regione e sui campi, quello che sta avvenendo in Cina «è probabilmente la più grande detenzione di minoranze etno-religiose dopo l’Olocausto». Ma Pechino nega: «I documenti, i cosiddetti documenti di cui state parlando sono vere e proprie macchinazioni. Se volete noi possiamo fornire molta documentazione sul tipo di educazione vocazionale del centro detentivo. Non ascoltate le fake news, le fabbricazioni dei fatti», ha dichiarato l’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming.

Campi di “rieducazione”: cosa dicono i documenti

Mappa dello Xinjiang
Fonte: ICIJ

A partire dal 2017 circa un milione di uiguri, secondo le stime del governo statunitense, sono stati rinchiusi in campi che Pechino definisce «centri di istruzione e formazione professionale». Un programma che la Cina giustifica nel contesto della sua lotta contro il terrorismo islamico. In questi campi costruiti in tutto Xinjiang, la regione autonomia a nord ovest della Cina, i detenuti sono costretti a imparare il mandarino, a rinunciare a presunti pensieri “estremisti” e a sottoporsi a un indottrinamento quotidiano sul partito comunista cinese.

Diversi ex detenuti hanno affermato di aver subito torture e abusi sessuali. Abduweli Ayup intervistato da Al Jazeera, ora esule a Istanbul, ha dichiarato di essere stato violentato da 20 uomini in una sola notte durante il suo periodo di internamento e di essere stato più volte umiliato torturato. Storie che si intrecciano con quelle che di donne che raccontano di essere state anch’esse violentate e perfino costrette ad abortire. I documenti classificati rivelano come ogni aspetto della vita di un detenuto venga monitorato e controllato: «Gli studenti devono avere una posizione fissa sul letto, un posto fisso in classe e una stazione fissa durante il lavoro, ed è severamente vietato che questo venga cambiato». Linee guida rigide per garantire una sorveglianza ravvicinata 24 ore su 24. Regolamenti che stabiliscono anche «disposizioni per alzarsi, telefonare, lavarsi, andare in bagno, organizzare e fare le pulizie, mangiare, studiare, dormire, chiudere la porta e così via».

https://twitter.com/arslan_hidayat/status/1198573011374354440

«Le porte del dormitorio – si legge – devono essere chiuse due volte per gestire e controllare rigorosamente le attività degli studenti per prevenire fughe durante le lezioni, i periodi di alimentazione, le pause del bagno, l’ora del bagno, le cure mediche, le visite della famiglia». E proprio le famiglie rimangono per mesi all’oscuro del destino dei familiari, rastrellati per strada e deportati dall’oggi al domani. Ai detenuti non è permesso di tenere cellulari e le chiamate a madri, padri, figli, fratelli sono consentite solo una volta alla settimana, mentre le video chiamate sono concesse una volta al mese. Un modo, si legge nei documenti, «per rassicurare la famiglia e il detenuto sul suo stato di salute».

Oltre i confini cinesi: la longa manus della repressione di Pechino

Ansa/Esuli uiguri a Istanbul protestano contro la repressione del governo cinese, 6 novembre 2018

Il file più lungo, il cosiddetto telegramma, istruisce inoltre il personale del campo su come prevenire le fughe, mantenere la totale segretezza sull’esistenza dei campi, sui metodi di indottrinamento forzato, come controllare le epidemie di malattia e quando consentire ai detenuti di vedere i parenti o persino usare il bagno. Il documento, che risale al 2017, mette inoltre a nudo un sistema di valutazione del comportamento per infliggere punizioni o ricompense per i detenuti. Un sistema che aiuta a determinare, tra le altre cose, se i detenuti possono entrare in contatto con la famiglia e quando vengano rilasciati.

Ma l’azione di Pechino si estende anche oltre i suoi confini. I documenti descrivono le direttive esplicite volte ad arrestare anche gli uiguri con cittadinanza straniera e a rintracciare coloro che vivono all’estero attraverso l’aiuto di ambasciate e consolati cinesi. Tanti i cittadini kazaki di etnia uigura che sono stati trattenuti in Cina durante viaggi nello Xinjiang e deportati in uno dei campi di “rieducazione” con il tacito consenso dei rispettivi governi. La repressione di Pechino non ha colpito però solo gli adulti. Negli ultimi anni, in parallelo al nascere di nuovi campi e strutture di internamento è aumentato anche il numero degli orfanotrofi. I bambini, strappati a padre e madri deportati nei campi, subiscono lo stesso programma di indottrinamento in un tentativo da parte di Pechino di eliminare per sempre la cultura e l’identità uigura.

Chi sono gli uiguri?

Minoranza turcofona di religione musulmana, gli uguri hanno vissuto prevalentemente in Asia centrale, in particolare nella regione ora conosciuta come Xjinjiang. Infatti è solo nel 1911 che l’allora Turkestan dell’Est, finisce sotto il controllo del governo cinese. Dopo alcune esperienze di autonomia governativa, nel 1949 viene creato uno Stato del Turkestan orientale. Avrà vita breve perché, nello stesso anno, lo Xinjiang diventerà ufficialmente parte della Cina comunista. Gli uiguri hanno dovuto a lungo affrontato l’emarginazione economica e la discriminazione politica come minoranza etnica, una minoranza che conta 11 milioni di persone in un Paese dove il 92% della popolazione è di etnia cinese Han. La maggior parte degli uiguri vive nello Xinjiang, una regione prevalentemente montuosa e desertica nell’estremo nord-ovest della Cina.

I problemi con Pechino

Ansa/Forze di sicurezza cinesi pattugliano le strade di Urumqi, nello Xinjiang. 16 luglio 2009

Le tensioni tra uiguri, da un lato, e il governo e la popolazione cinese Han della regione, dall’altro, sono spesso sfociate nella violenza. Nel 2009, gli uiguri iniziarono delle rivolte nella capitale dello Xinjiang, Urumqi. In quegli scontri 200 persone rimasero uccise, vittime che per le autorità cinesi sarebbero state in prevalenza Han. La Cina ha incolpato i separatisti uiguri e ha promesso di eliminare l’ideologia islamica militante tra la popolazione uigura. In una dichiarazione al The Guardian, la Cina ha affermato che i campi sono uno strumento efficace nella sua lotta contro il terrorismo e non violano la libertà religiosa. Secondo l’ambasciata cinese nel Regno Unito «da quando sono state prese le misure, negli ultimi tre anni non c’è stato nessun singolo episodio di terrorismo. Lo Xinjiang si è trasformato di nuovo in una regione prospera, bella e pacifica». «Le misure preventive non hanno nulla a che fare con l’eradicazione dei gruppi religiosi – scrive l’ambasciata -. La libertà religiosa è pienamente rispettata nello Xinjiang».

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