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Interviste emergenti: Eugenio in Via Di Gioia, la strada è lo spartito – Torino

27 Novembre 2019 - 14:58 Felice Florio
Fanno musica, ma salvano anche le foreste. La loro essenza artistica è la strada, ma potremmo presto vederli sul palco dell'Ariston. Le contraddizioni si sublimano nei loro brani «per smascherare gli eccessi della società occidentale»

Forza di volontà, profonda dedizione e felicità come disciplina delle proprie giornate. Chi crede che oggi sia impossibile arrivare sui palchi più importanti di Italia partendo da un portico di via Lagrange a Torino, non conosce gli Eugenio in Via Di Gioia. Dal contare le monete raccolte nel cappello a fine giornata all’essere selezionati tra le Nuove Proposte di Sanremo 2020. Ne ha fatta di strada, Eugenio, che dalla strada è partito trascinando nel suo sogno Emanuele, Paolo e Lorenzo.

Adesso quel sogno sta diventando realtà: dall’esordio con l’etichetta indipendente Libellula Music, con la quale è uscito il primo album – Lorenzo Federici (2014) – al contratto con Universal. Il 2019 è stato un anno fondamentale per gli Eugenio in Via Di Gioia: il terzo disco, Natura Viva, una serie di date dove hanno registrato il tutto esaurito e la bellissima iniziativa Lettera al prossimo.

«Eugenio Cesaro nasce piangendo nel 1991 e rinasce cantautore nel 2011». Si racconta così il cantante del gruppo che, dal 2012 in poi, è riuscito a cucire intorno a sé una band «in principio dittatoriale, io ero il despota. Con il tempo siamo diventati una bella democrazia».

Con lui, oggi, suona Emanuele Via, classe 1992, «che si era da poco trasferito a Torino per l’università portando con sé tastiera e fisarmonica», Paolo Di Gioia, «nato nel 1991 tenendo il tempo» e Lorenzo Federici, classe 1987, «che si è trasferito ormai adulto a Torino dopo aver vissuto la propria pubertà a Terni».

Eugenio, cominciamo dagli inizi. Tu sei partito come busker, un artista di strada, giusto?

«Il progetto, nella sua fase più embrionale, è partito nel 2012: eravamo io ed Emanuele. Prima di allora ero da solo, per strada, a Torino. Ho iniziato suonando cover, le più pop possibili per fare soldi: mi piaceva l’idea di andare sotto un portico, su un marciapiede, e cantare. L’avevo visto fare a Berlino, mi era piaciuto tantissimo, e ho deciso di farlo anche senza saper suonare: le uniche canzoni che conoscevo erano cinque e le facevo a ripetizione».

Quanti anni avevi?

«Avevo compiuto da poco 18 anni, era la gita scolastica dell’ultimo anno di liceo. Mi ricordo che vidi questo ragazzo suonare nella metropolitana: mi innamorai del fatto che stesse suonando con quattro corde. “Caspita – mi dissi -, lo devo fare anch’io. Tornato a Torino, la prima cosa che ho fatto è stata imparare cinque canzoni. Non sapevo suonare la chitarra, ma mi piaceva cantare. Unendo questa passione alla spregiudicatezza, alla voglia di farmi vedere, sono andato a suonare per strada».

E come è andata?

«Dopo un anno e mezzo di piogge e sorrisi dei passanti, avevo imparato gli orari e i luoghi giusti per guadagnare di più, i tipi di canzoni che piacevano alle persone. Ma, con la consapevolezza, arrivò anche la noia. Mi ero stufato perché non c’era margine di miglioramento: l’unica cosa che potevo fare era guadagnare più soldi, nel cappello».

Più un passatempo che un lavoro.

«Non proprio, arrivavo anche a guadagnare 200 euro al giorno, suonando due ore, non di più: delle cifre spropositate. Era importante scegliere le vie migliori e gli orari migliori. Ad esempio via Lagrange, la strada più ricca di Torino. Lì le banconote da cinque euro non erano così rare. Alcune volte nel cappello trovavo anche pezzi da 20 euro. In quel cappello c’era un bello stipendio, ma anche bigliettini con i numeri di telefono delle ragazze: quando li trovavo ero felicissimo».

Cosa pensavano i tuoi amici, la tua famiglia?

«Il contraltare era che i miei compagni, non abituati a vedere artisti di strada – Torino non era così mondana da questo punto di vista, a differenza di Milano o la stessa Firenze -, i miei compagni più volte mi cercavano per chiedermi se avessi problemi economici, mi offrivano prestiti. Ero un clochard nel loro immaginario. Invece non era così: anzi, la mia prima band, dalla quale ho imparato tantissimo, mi aveva assoldato dopo avermi visto suonare in strada».

Però tu stesso hai detto che a un certo punto ti sei stancato di fare cover per strada.

«Tornando alla noia, per evadere ho smesso di fare cover e ho iniziato a improvvisare sui passanti che avevano la sfortuna di capitare sotto il mio sguardo: in quelle canzoni improvvisate venivano fuori tutti i miei problemi, riversati su di loro. Sentivo di far parte di un mondo consumista? Scherzavo sul passante con le buste in mano della boutique del centro. Non volevo entrare a far parte del mondo degli adulti perché lo avvertivo troppo pieno di contraddizioni? Punzecchiavo i dipendenti che uscivano dal lavoro e non mi degnavano nemmeno di uno sguardo. Cercavo di mettere in luce le criticità della società con le mie improvvisazioni».

Non hai mai pensato di proseguire gli studi?

«Certo, mi sono iscritto all’università: facevo un corso di design e sostenibilità ambientale. Lì ho conosciuto Emanuele, il tastierista, che ha accettato di venire in strada a suonare con me. Non ero più da solo».

Gli Eugenio in Via Di Gioia si andavano formando.

«Una ragazza che ci vide suonare ci invitò a fare una performance in un locale torinese. C’era pochissima gente. Ma non è questa la parte importante della storia. Il giorno prima della data, incontrai per caso Paolo, che oggi è il nostro batterista. C’eravamo conosciuti durante le superiori e ricordavo che suonava la batteria in una band di amici. Lo invitai a suonare con noi il giorno dopo e si prese bene. Quel giorno, su quel palco con poca gente davanti, nacquero gli Eugenio, che sono io, in Via, cognome di Emanuele, e Di Gioia, cognome di Paolo. Era l’ottobre 2012».

Chi era il leader della band?

«All’inizio mi sentivo un po’ il “dittatore” del gruppo. Mi ricordo che dissi loro: “Questa è una band, ma sappiate che l’indirizzo delle nostre canzoni, della nostra arte, lo decido io”. La cosa bella è che negli anni, ne sono passati sette, la mia dittatura è finita: siamo diventati una democrazia, e ne vado fiero».

Sbaglio o prima non abbiamo parlato di un componente?

«A marzo 2013 abbiamo incontrato Lorenzo Federici ed è diventato il nostro bassista. Ma ormai il nome della band già c’era e non volevamo cambiarlo. In cambio, il titolo del primo disco che abbiamo inciso è, appunto, Lorenzo Federici».

Qual era la caratteristica che ti spingeva a credere così tanto nella musica?

«Fin dall’inizio ero convinto che ce l’avremmo fatta. Avevamo qualcosa in più: ricordo che andavo ai concerti degli altri e mi annoiavo. Lo dico sinceramente, ma credetemi: non vuole essere una roba da sbruffone. È che dopo un’ora di concerto il risultato era sempre quello: la noia».

Ci sarà qualche artista che ti piace.

«Sì, chiaro, mi piace un sacco Guido Catalano. Ma lui legge poesie, non canta. Resterei ore ad ascoltarlo. Però non è colpa degli altri cantanti se mi annoiano: sono io che ho dei cali di attenzione frequenti – ride -. Ma questa cosa mi ha aiutato a tracciare una strada nella musica che sentivo mia, che non aveva fatto nessun altro e che mi faceva divertire. Questa è stata la mia forza, soprattutto all’inizio».

Di che strada parli?

«La nostra musica si muoveva sul binario del folk. In quegli anni, in Italia, non era un genere molto battuto. Sono arrivati, più o meno insieme a noi, La Rappresentante di Lista e Iosonouncane, ma avevano un atteggiamento più serioso di noi. Gli Eugenio aggiungevano quel sarcasmo che solo la strada sa insegnarti, e una briciola di cantautorato in stile Gaber, Jannacci. C’era dell’autoironia e allo stesso tempo una ricerca sonora che abbiamo importato dall’estero».

Era un progetto studiato bene.

«Tutt’altro: a quel tempo non c’era una progettualità, fu tutto un po’ frutto del caso. C’era un’idea, questo sì. Ma era molto nebulosa. Ecco, un’ulteriore fortuna è che, avendo studiato grafica, molte cose ce le autoproducevamo. Ad esempio i video».

E i vostri genitori come presero questa improvvisazione delle vostre vite?

«Ci sono tanti problemi quando fai parte di una band da giovane. Il mio personale problema era che mio padre voleva che facessi l’ingegnere. Allora gli ho detto: “Ok, faccio il designer”. E si è incazzato comunque. Poi quando ha visto che stavo iniziando a fare il cantante, una sera, mi si avvicinò e mi disse: “Perché non fai il designer?”. Tutt’ora sostiene che io non stia facendo un vero lavoro. Ma questo per me è uno stimolo».

Adesso che state diventando famosi, però, si sarà ricreduto.

«È venuto a un solo mio concerto, in tutta la mia vita. C’è un rapporto conflittuale tra lui e le scelte che sto facendo. Comunque, tornando ai problemi comuni degli Eugenio, direi che in generale per gli altri non dev’essere stato facile fidarsi di me e della mia idea di musica. Tutti avevano altri progetti di vita: Emanuele voleva fare il designer, Paolo voleva fare il videomaker. Lorenzo era l’unico vero appassionato di musica e infatti forse era quello più sicuro di tutti. Ma le famiglie di ciascuno non erano d’accordo, dopo aver investito tanto nella nostra formazione».

Non si può loro farne una colpa, i genitori sono apprensivi per natura.

«Come biasimarli: non è che avevamo chissà quali riscontri in termini economici. I primi due dischi li abbiamo pubblicati in crowdfunding. Anzi, erano i parenti a darci una mano. Mi ricordo alcuni pranzi in cui mi chiedevano: “Ehi Eugenio, cosa fai oggi pomeriggio”. E io rispondevo: “No zia, sono impegnato, devo fare un video per chiedere soldi”. Emanuele e Lorenzo, poi, non essendo torinesi, avevano un affitto sulle spalle».

Nel vostro caso, quanto è stata dura la strada della musica?

«È stato un percorso davvero difficile. D’altro canto, però, dall’inizio a oggi c’è stata sempre una crescita lineare, costante. Non abbiamo fatto mai un passo indietro nella nostra carriera musicale. Tutto ciò per cui investivamo qualcosa, ci tornava indietro “qualcosa virgola uno”».

E la svolta quando è arrivata?

«Non saprei. Forse quando siamo entrati in Universal, a fine 2018. Il primo disco con loro è uscito a marzo 2019. Forse lì ho pensato per la prima volta che gli Eugenio in Via Di Gioia avrebbero potuto vivere, vivere bene, di questo – sorride -. Ma non è ancora avvenuto, credetemi. Non abbiamo ancora uno stipendio, abbiamo però una strada solida davanti a noi, la vediamo e la percorriamo. Arriverà il momento: ci credevo sei anni fa e ci credo ancora di più oggi».

Già, nell’immaginario comune se fai musica e hai milioni di visualizzazioni su YouTube, allora vuol dire che sei ricco.

«A me personalmente non interessano i soldi, davvero. A me basta stare bene, farmi una famiglia con la mia fidanzata. Ma farei un bell’all-in per la musica. Non spendo soldi per vestiti, se viaggio non dormo in hotel di lusso. Il sabato sera mi accontento di una birra a Torino».

Parliamo dei vostri pezzi. Quali temi vi piace indagare?

«La nostra musica si sviluppa intorno al disagio sociale. Ci focalizziamo su chi si lamenta di come vanno le cose: è una sorta di autoironia. Ci conformiamo e poi prendiamo in giro noi stessi. Da una parte è stimolante perché la gente non ci vede come quelli che giudicano perché siamo noi stessi a calarci nella parte e a prenderci in giro. Dall’altra parte, gli ascoltatori ridono, ma in fondo si rivedono in noi. Ecco l’obiettivo è che dopo la risata, inizi il momento di riflessione».

E funziona?

«Con il tempo ci siamo accorti che l’ironia rischiava di sfociare nel cinismo e nella superficialità. Quindi abbiamo alternato al sarcasmo, cose crude, dirette. I temi però ruotano sempre intorno al consumismo, a tutto ciò che ha di eccessivo il mondo occidentale».

Per esempio, parlate molto di salvaguardia dell’ambiente.

«Le questioni ambientali sono state sempre presenti nei nostri dischi, già dal primo. Proprio perché io e Emanuele studiavamo ecosostenibilità all’università. Eravamo immersi in problematiche che non erano ancora giunte al grande pubblico, grazie a dei professori luminari. La nostra fortuna è stata parlarne prima: chi ci ascoltava, già dal 2015 si interfacciava con le tematiche ambientali che poi sono entrate nel cuore di tutti nel 2019 grazie a una bambina di nome Greta Thunberg».

Come avete vissuto l’anno dei Fridays for Future?

«Eravamo già pronti al secondo step. Superata in anticipo la fase di sensibilizzazione, quest’anno abbiamo potuto passare all’azione: abbiamo trasformato una canzone in un’azione concreta. Anzi – ride – “con-greta”. Ci hanno supportato Coldiretti, divulgatori scientifici che già ci conoscevano e insieme abbiamo deciso di lanciare un crowdfunding per piantare una foresta».

Ecco, cos’è stato e cos’è Lettera al prossimo?

«Lettera al prossimo è una canzone, ma è anche una campagna di crowdfunding lanciata sul sito degli Eugenio in Via Di Gioia su cui la gente poteva fare una donazione in denaro o in tempo. Parlo di tempo perché abbiamo scelto di convertire in soldi i minuti passati sul nostro sito a informarsi sulla questione ambientale. Con la cifra raggiunta, circa 12mila euro in soli dieci giorni, ripianteremo una porzione di foresta in Trentino distrutta l’anno scorso dalla tempesta Vaia. Parliamo di più di mille alberi».

Alberi di che specie?

«Sono dei bellissimi abeti rossi. Proprio da quella foresta proviene il legno con cui sono stati fatti i violini Stradivari e vengono tutt’ora fatti molti strumenti ad arco. Grazie alla musica piantiamo una foresta che poi restituirà, in modo ecosostenibile, materia prima alla musica».

Eugenio, chiudiamo quest’intervista emergente di Open come facciamo di solito. Ora è il momento di immaginare: qual è il tuo concerto dei sogni?

«In alta montagna, in una baita. Pochi, pochissimi amici a sentirci, quelli veri. Sarebbe un micro-festival e vorrei che sul palco si alternassero con noi Gaber, Jovanotti, Giovanni Truppi, Andrea Laszlo De Simone».

E i Pinguini? Loro si trovano bene con le temperature dell’alta montagna.

«E mettiamoci pure i Pinguini Tattici Nucleari – Eugenio sorride, i membri delle due band sono amici -. Però basta così: il giorno prima di morire, vorrei fare un concerto il più intimo possibile».

Video: Vincenzo Monaco

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