Venezia sott’acqua: può un referendum salvare la città? Domenica il voto sulla separazione da Mestre
A Venezia continua la paura acqua alta, dopo che la città è stata colpita nei giorni scorsi dalla più violenta piena degli ultimi 50 anni. E mentre si tirano fuori dagli armadi gli stivali alti, a Venezia torna anche il referendum: il quinto in quarant’anni.
Il primo dicembre si voterà sull’eventuale separazione tra laguna e terraferma. Un referendum – complice l’emergenza acqua alta degli ultimi giorni – caratterizzato da una quasi totale assenza di campagna referendaria: da un lato partiti e sindacati, tutti compatti per il «no» alla separazione assieme ad una parte di cittadini, dall’altro alcuni comitati civici che hanno proposto il voto.
I precedenti
La disaffezione dei veneziani a questo referendum è in ogni caso lampante se si analizza l’affluenza dei voti precedenti. Si va dal 79,5% del 1979 (quando vinse il ‘no’ col 72,4% dei voti), al 74,1% del 1989 (si oppose il 57,8% degli aventi diritto), passando per il 67,9% del 1994, quando vinse il ‘no’ con il 55,6% dei voti. Nel 2003 l’affluenza non superò il 39%: vinse il ‘no’ ma il quorum non era stato raggiunto. Sebbene il ‘no’ abbia sempre vinto, il referendum è consultivo e può essere riproposto all’infinito.
Se dovesse vincere il «sì», e se il Consiglio regionale decidesse di dargli seguito, i 91mila abitanti di Venezia e delle isole si dovrebbero separare dai 177 mila veneziani della terraferma e si formerebbero due Comuni differenti. I cinque referendum precedenti sarebbero costati alla città quasi cinque milioni di euro: 4.981.728 euro per la precisione.
Il referendum arriva in un momento in cui Venezia è al capolinea dal punto di vista ambientale, decadente e costretta a fare i conti con un cambiamento climatico che aleggia sul futuro della città e della sua sopravvivenza. Un tema legato anche alla mole di turisti che il comune vorrebbe ridurre introducendo una tassa di ingresso e limitando l’ammontare complessivo di visitatori: passando dai 23 milioni annui a 19.
E allora, puntualmente, veneziani e mestrini si chiedono se una separazione non possa portare benefici a entrambi o, al contrario, far sprofondare definitivamente la città lagunare.
Laguna: un elemento di unione
«Il problema è gestire la complessità di Venezia, non separare due realtà che sono fortemente interconnesse dal turismo ai trasporti». A dirlo a Open è Simone Stefan, voce del no, e da anni attivo nella politica locale di Venezia. Ex ricercatore in diritto, ambientalista, fa parte del comitato «No grandi navi» e non crede che la soluzione stia nella separazione delle due realtà.
«La città è un continuum, c’è in mezzo la laguna ma non è un elemento di separazione, è un elemento vivo», dice Stefan. «Questa contrapposizione del noi contro loro – come se fare il bene di Venezia fosse fare il male di Mestre e viceversa – non aiuta il dibattito».
«È l’unico comune al mondo che periodicamente si trova a dover decidere se continuare con l’attuale assetto amministrativo o andare a dividere la città in due o più comuni distanti», continua Stefan. «Sicuramente Venezia ha problematiche diverse rispetto a quelle di Mestre, che è invece più ordinaria dal punto di vista amministrativo. E c’è chi ritiene che le due città non possano andare avanti assieme».
Venezia e Mestre: due pesi per entrambe
Un dibattito, quello sul referendum, che per molti si sarebbe dovuto chiudere già nel 2003. Con l’inizio del nuovo millennio e il ritorno, ancora una volta, della maggioranza del «no», la questione sulla divisione sembrava ormai archiviata. E invece, nella situazione di necessità ed emergenza in cui si trova la Laguna, ecco che in vista del primo dicembre riaffiorano i contrasti di due città diverse, ma unite.
«Le cose semplici non esistono, però sicuramente l’aver collegato Venezia a Mestre ha implicato una zavorra sia per l’una che per l’altra città, portando a una ripartizione sproporzionata dei soldi. Mestre ha una dignità di città a sé stante e viceversa Venezia non può essere ancorata a una cittadina», dice a Open Marco Balich, direttore artistico e mente di grandi eventi olimpici, da Sochi a Tokyo il prossimo anno, passando per l’evento di apertura dell’Expo. Lui, veneziano doc, sottolinea come «Venezia è simbolo dell’umanità e non può essere assoggettata al problema del consenso di un’altra città».
Dal Mose, alla questione della tassa di ingresso, passando per il no alle grandi navi, «queste decisioni non possono passare dall’approvazione di un’altra città. La ripopolazione non passa attraverso una gestione bilanciata tra entroterra e Venezia, ma passa attraverso la creazione di prerogative».
Una città terminale
«Venezia merita un’attenzione e una cura che sono quelli che spettano a un malato terminale che non può andare avanti ad aspirine», dice Balich che, non punta il dito contro l’amministrazione ma sull’impossibilità di prendere decisioni definitive: «La filosofia di un unicum tra città di acqua e di terra è una chimera: dobbiamo guardare avanti e essere realisti».
Ma c’è chi crede ancora nell’unione di terra e acqua: «C’è una narrazione legata a recinti identitari un po’ dappertutto. “Prima i veneti”, “prima i veneziani”, “il piccolo è bello”: questa è una tesi che non condivido, le amministrazioni servono a gestire queste complessità», dice Stefan, che chiarisce come «Venezia è oggi l’undicesimo comune d’Italia per forza demografica: penso che anche politicamente, sullo scacchiere nazionale e regionale, una città di 260mila abitanti pesi di più di un comune di 80mila».
E sulla crisi ambientale c’è chi invoca una divisione per una gestione più efficace delle emergenze. «La situazione tragica che sta vivendo la città non è dovuta al fatto che ci sia un comune unitario: è la conseguenza delle azioni dello Stato, della regione e di alcuni politici locali che hanno lucrato sul Mose e su altre opere non funzionali. Capisco chi dice basta, ma non è la soluzione».
Più drammatica invece l’analisi di Balich, secondo cui Venezia deve pensare che «tra 100 anni potrebbe non esserci più». «Bisogna agire subito. Non può essere assoggettata a normali regoli di gestione cittadina. Questo romantico aspetto del «siamo un tutt’uno è il vero problema», conclude.
Due appelli contrapposti per una città sull’orlo di una crisi, una delle tante vissute nei secoli dalla Serenissima, ma forse l’unica da cui non potrà tornare indietro.
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