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Da Reclaim the streets a Fridays for future, passando per Seattle, quando prendere le strade è già politica

30 Novembre 2019 - 01:01 Sara Menafra
"Simbolismo tattico" e strategie globali, cosa è rimasto in vent'anni di "invasioni"

I Fridays for future sono tornati in piazza il 29 novembre, celebrando (nei fatti, le date sono di poco spostate) un anno di vita. Sabato 30 novembre il movimento No Global compie vent’anni, perché lo stesso giorno del 1999 è stato quello delle manifestazioni a Seattle contro il Wto. 

Se le manifestazioni sembrano da un lato somigliarsi tutte (c’è chi ci ha già allietato con il consunto paragone con il 1968 persino per le Sardine) e dall’altro essere tutte diverse, alcuni punti di contatto tra quelle di allora e quelle di oggi – stavolta – li vediamo davvero. E forse perché la generazione Z era bambina quando accadde Seattle – e, soprattutto, quando accadde Genova 2001 – alcune proteste le hanno bene in mente.

Reclaim the streets, Londra

Proteste globali

Due caratteristiche si sono tramandate dal 1999. Prima di tutto, quella che oggi appare tutto sommato banale ma che allora era una novità assoluta: muoversi su scala “globale”. I No Global sono stati i primi ad agire simultaneamente in diverse parti del pianeta, organizzando manifestazioni nella stessa data e con le stesse modalità. Proteste che non includevano solo il Nord del pianeta ma i suoi quattro angoli.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=4&v=tqluDGxTDDk&feature=emb_logo

La prima manifestazione internazionale è stata pensata così, probabilmente – quella del 18 giugno 1999, il Global Day of Action – contro il meeting del G8 di Londra o J18. Nella city si svolge un “Carnevale contro il capitale”, cui fanno eco una marcia dei cinquantamila a Brasilia, in Nigeria 10mila persone che partecipano al “Carnevale degli oppressi”, per protestare contro lo sfruttamento petrolifero nel delta del Niger, e manifestazioni dal Pakistan alla Bielorussia, oltre, ovviamente, agli Stati uniti. 

Il giornale “falso” distribuito a Londra per il J18

La facilità di comunicazione tra luoghi diversi del pianeta è dovuta indubbiamente al rapido diffondersi di internet. Alla fine degli anni ‘90, molto più di quanto accada oggi, c’era anche l’idea che la forma della rete non fosse ancora definita e non dovesse essere per forza in mano a multinazionali.

Il movimento no global aveva dunque i suoi mezzi di comunicazione: uno tra tutti Indymedia che, prima della nascita di Youtube, di Facebook e dei social network, permetteva di uploadare e diffondere in rete immagini e video, senza filtri e gratuitamente. La rapida diffusione delle immagini e la facilità di comunicare hanno fatto il resto.

Il carnevale in piazza

Lo stile di mobilitazione altamente simbolico e tattico nasce quasi totalmente dai movimenti ambientalisti. Due in particolare: l’organizzazione Greenpeace, la prima a scegliere quello che poi verrà chiamato il “simbolismo tattico” per superare il limite di essere un’organizzazione piccola, di nicchia, nulla a che vedere con le grandi Ong ambientaliste che dominavano allora. 

Ansa | La nave di Greenpeace durante la Zero Toxics Campaing 1999

L’altra organizzazione capostipite delle azioni simboliche è Reclaim the street: la non organizzazione, come essa stessa si definiva. Nata a metà degli anni ‘90 con l’idea di limitare o interrompere la costruzione di grandi autostrade e più in generale sostenendo l’idea di una vita nelle città più umana.

La loro idea era semplice e tutta simbolica: chiunque, senza necessità di darne avviso agli altri, poteva organizzare una festa in strada, bloccare la circolazione delle auto, accendere la musica e provare a piantare alberi dove possibile. Molte di queste tecniche torneranno con il movimento Occupy Wall Street, nel 2011.

Reclaim the Streets, Newtown, Sydney, 1999. Photo by Pete Strong

La manifestazione a Sidney, Australia, per il J18

Azioni simboliche, clown in piazza, colori, travestimenti. Walter Benjamin aveva già teorizzato negli anni ‘30 che con le tecnologie avanzanti – allora si parlava di radio – l’audience si stava trasformando in una collettività in «stato di distrazione». Lo sguardo, focalizzato, si era trasformato in un occhio distratto, abituato, un attore immerso in una marea di immagini.

Emergere da questo mare  era possibile, proprio con azioni simboliche. E infatti dall’assalto alle petroliere al cartello di Greta Thunberg, il simbolo diventa più potente della manifestazione numerica. A studiare il fenomeno è stata, tra gli altri, la professoressa Jennifer Peeples, university of Utah, intervistata da Open:

«Allora stavamo indagando sulla sfera pubblica per quanto riguarda il reportage televisivo e la stampa. I telefoni cellulari e i media indipendenti stavano appena iniziando a cambiare il volto dell’attivismo e del giornalismo. Con l’introduzione di Facebook nel 2006, il paesaggio di immagini, protesta e testimonianze è stato modificato per sempre.  L’obiettivo non era più quello di creare immagini visivamente accattivanti per catturare l’attenzione dei media tradizionali, ma di produrre documentazione individuale, e/o costruzione di spettacoli per media indipendenti o telefoni personali, per la pubblicazione su siti mediatici e per un pubblico più piccolo, sia per soggetti o caratteristiche specifiche.  Lo schermo si è spostato dalla televisione alla mano e da fonti centralizzate a costellazioni di produttori di contenuti interconnessi e luoghi di ritrovo, portando con sé una serie di nuove possibilità e problemi per l’attivismo globale e l’advocacy. Detto questo, il bisogno di immagine e spettacolo per catturare l’attenzione del pubblico rimane invariato».

No Logo e Blockfriday

#BlockFriday ha detto già qualcuno. E i manifestanti del Fridays for future, in Europa, negli Stati Uniti e anche in Italia, hanno subito detto che la coincidenza tra il nuovo sciopero per il clima e l’invito a non consumare nella giornata dei saldi pre-natalizi – recentissimamente importata dagli Stati Uniti – è voluta e come.

EPA/Andreu Dalmau | Naomi Klein

C’è indubbiamente qualcosa di simile al movimento no global e, soprattutto, al genere di proteste che aveva immortalato il libro che allora divenne generazionale: No Logo di Naomi Klein (che non a caso oggi si occupa di clima).

Il libro raccontava di come le multinazionali stessero prendendo sempre più spazio nella vita concreta delle persone, “brandizzando” ogni cosa, le panchine, i tombini delle strade, i campetti di basket dei quartieri neri americani. A pensarci oggi fa quasi sorridere, visto che la brandizzazione è andata ben oltre quello che si raccontava nel libro. 

University of Washington | Seattle 30 novembre 1999

Allora come oggi, il movimento prese tutti di sorpresa, racconta Naomi Klein in una intervista concessa recentemente al Guardian: «No Logo arrivò quando il movimento globale stava esplodendo, prendendo i commentatori totalmente di sorpresa. Era come se si stesse rompendo una diga. Ogni mese c’era un’altra manifestazione massiva in giro per il mondo e non soltanto nel nord globalizzato».

E di nuovo, allora come oggi, nessuno credeva che i giovani fossero ancora interessati alla politica: «La percezione tra chi gestiva i media e le case editrici negli anni ‘90 era che i giovani fossero completamente apolitici». 

Detta così, sembrerebbe che allora ci fossero tutti o quasi gli ingredienti che vediamo in campo oggi, meno il fatto che attualmente tra i simboli sembra quasi sparito quello della distruzione del feticcio e non è più automaticamente vero che, come si diceva nei giornali anglosassoni nel ‘900 “if it bleeds it leads” (qualcosa che potremmo tradurre con “se sanguina va in prima pagina”). 

Il gelo del 2001

Le manifestazioni contro la globalizzazione ebbero il loro acme a Seattle, il 30 novembre 1999, e il loro trauma a Genova, nel 2001, quando nel corso delle proteste contro il G8 fu ucciso un manifestante, Carlo Giuliani.

ANSA/LUCA ZENNARO | Un momento della manifestazione in memoria della morte di Carlo Giuliani a Genova, in una immagine del 20 luglio 2018.

Ma il motivo dell’addio alle piazze di quei movimenti, fu l’attentato alle torri gemelle, l’11 settembre 2001. Spiega la professoressa Peebles:

«Con l’attacco contro il World Trade Center, qualsiasi protesta negli Stati Uniti, qualsiasi interrogatorio del governo, è stata considerata non patriottica, antiamericana e incorniciata come sostegno ai nemici “terroristi”. Le prove chiaramente fallaci fornite dal governo degli Stati Uniti per una guerra con l’Iraq hanno portato la gente per le strade nel 2003. I manifestanti si sono impegnati in grandi marce, in contrapposizione all’azione diretta, alla violenza simbolica e allo spettacolo visivo delle proteste contro il WTO, che si sono dimostrate tutte inefficaci nel fermare la devastante guerra in corso.  La promessa della “Battaglia di Seattle” si sarebbe diffusa in tutto il mondo prima che ritornasse negli Stati Uniti sotto forma del Movimento Occupy nel 2011». 

Naomi Klein dà una risposta simile:

«Quando i governi hanno cominciato a paragonare i movimenti per la giustizia sociale con i terroristi, molti manifestanti si spaventarono. Quello che era molto entusiasmante di queste manifestazioni era che erano molto variegate: c’erano anarchici, grandi Ong, sindacati dei lavoratori autonomi che si sforzavano davvero per trovare un terreno comune. In sud america, india e altrove hanno continuato ma dopo l’11 settembre non hanno più avuto connessione col nord del mondo».

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